Monday, March 31, 2008

Catalogo planetario

Naoya Hatakeyama, from the series Blast.

Difficile riassumere in poche parole il lavoro dell’artista giapponese Naoya Hatakeyama, preferiamo limitarci a fare un semplice elenco/mappa per dare un’occhiata a quello che si può sbirciare in rete (e immagini come le sue su internet si guardano davvero come dal buco della serratura): esplosioni, atmosfere terrestri, gocce di pioggia, metropoli (anche qui), etc…
Qui un elenco dei suoi libri.

Hard to sum up in a few words the work of Japanese artist Naoya Hatakeyama, let’s just make a list/map to take a look at what can be found on the web (and looking at images like his own on the internet is really like glancing at something through a keyhole): blasts, earth atmosphere, raindrops, metropolis (also here), etc…
Here's a list of his books.

Naoya Hatakeyama, Lime Hills (Quarry Series).

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Friday, March 28, 2008

Gonzo

Hunter S. Thompson, Self Portrait, In White Whale, Las Vegas, circa 1970s.

"Strani ricordi in quella nervosa notte a Las Vegas. Sono passati cinque anni? Sei? Sembra una vita. Quel genere di apice che non tornerà mai più. San Francisco e la metà degli anni sessanta erano un posto speciale ed un momento speciale di cui fare parte. Ma nessuna spiegazione, nessuna miscela di parole, musica e ricordi poteva toccare la consapevolezza di essere stato là, vivo, in quell'angolo di tempo e di mondo, qualunque cosa significasse. C'era follia in ogni direzione, ad ogni ora, potevi sprizzare scintille dovunque, c'era una fantastica, universale, sensazione che qualsiasi cosa facessimo fosse giusta, che stessimo vincendo. È quello, credo, era il nostro appiglio, quel senso di inevitabile vittoria contro le forze del vecchio e del male, non in senso violento o cattivo, non ne avevamo bisogno, la nostra energia avrebbe semplicemente prevalso, avevamo tutto lo slancio, cavalcavamo la cresta di un'altissima e meravigliosa onda. E ora, meno di cinque anni dopo, potevi andare su una ripida collina di Las Vegas e, se guardavi ad ovest, e con il tipo giusto di occhi, potevi quasi vedere il segno dell'acqua alta, quel punto, dove l'onda infine si è infranta ed è tornata indietro".


(Paura e Delirio a Las Vegas, adattamento di Terry Gilliam dal testo di Hunter S. Thompson)

Poco più di un anno fa la M+B Gallery di Los Angeles ha presentato un’esposizione che raccoglie le fotografie realizzate da Hunter S. Thompson nel corso della sua vita, tra contemplazioni mistiche, occhi neri, pistole e molto altro (qui immagini dalla mostra alla Michael Hoppen Gallery di Londra). Enjoy!

Hunter S. Thompson, Typewriter Still Life, Big Sur, circa 1960s.

"It seems like a lifetime, or at least a Main Era — the kind of peak that never comes again. San Francisco in the middle sixties was a very special time and place to be a part of. Maybe it meant something. Maybe not, in the long run... but no explanation, no mix of words or music or memories can touch that sense of knowing that you were there and alive in that corner of time and the world. Whatever it meant...
History is hard to know, because of all the hired bullshit, but even without being sure of 'history' it seems entirely reasonable to think that every now and then the energy of a whole generation comes to a head in a long fine flash, for reasons that nobody really understands at the time — and which never explain, in retrospect, what actually happened.
My central memory of that time seems to hang on one or five or maybe forty nights — or very early mornings — when I left the Fillmore half-crazy and, instead of going home, aimed the big 650 Lightning across the Bay Bridge at a hundred miles an hour... booming through the Treasure Island tunnel at the lights of Oakland and Berkeley and Richmond, not quite sure which turnoff to take when I got to the other end... but being absolutely certain that no matter which way I went I would come to a place where people were just as high and wild as I was: no doubt at all about that...
There was madness in any direction, at any hour. If not across the Bay, then up the Golden Gate or down 101 to Los Altos or La Honda... You could strike sparks anywhere. There was a fantastic universal sense that whatever we were doing was right, that we were winning...
And that, I think, was the handle — that sense of inevitable victory over the forces of Old and Evil. Not in any mean or military sense; we didn't need that. Our energy would simply PREVAIL. There was no point in fighting — on our side or theirs. We had all the momentum; we were riding the crest of a high and beautiful wave...
So now, less than five years later, you can go up on a steep hill in Las Vegas and look West, and with the right kind of eyes you can almost see the high-water mark — that place where the wave finally broke and rolled back".


(Hunter S. Thompson, Fear and Loathing in Las Vegas)

Less than a year ago, M+B Gallery of Los Angeles hosted an exhibition of photographs made by Hunter S. Thompson, a mix of mystical contemplations, black eyes, guns and much more (see some images also from the exhibition at Michael Hoppen Gallery in London).
Enjoy!

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Thursday, March 27, 2008

Famiglia modello

© Shahriar Tavakoli

La famiglia è al centro del lavoro di un altro fotografo iraniano, Shahriar Tavakoli. Nella serie My Family ritrae i membri della sua famiglia mentre inscenano momenti tipici della convivenza domestica iraniana, sospesi su uno sfondo nero che gli dà un senso di astrazione che genera un'osservazione distante, ironica ma affettuosa.

Da vedere anche la sua serie di immagini notturne.

Family is the core of the work of another Iranian photographer, Shahriar Tavakoli.
In his series
My Family he portrays his relatives while they stage typical moments of Iranian family life. His images are suspended on a dark background, giving them a feeling of abstraction, creating a kind of distant observation, ironic and tender at the same time.

Also check out his gallery of night photography.


© Shahriar Tavakoli

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Wednesday, March 26, 2008

Abiti sociali


“Sono una donna e vivo in Iran. Sono una fotografa e questa è l’unica cosa che so fare. Ho cominciato il lavoro subito dopo aver finito i miei studi. Per puro caso i soggetti delle mie prime due serie sono “donne”. Comunque sia, ogni volta che inizio una nuova serie, questa si ricollega in qualche modo alle donne.

Per me non fa alcuna differenza quale posto la donna iraniana abbia nel mondo, poiché sono piuttosto sicura che nessuno sappia granché a riguardo.

Forse la sola visione possibile per qualcuno di estraneo alla condizione della donna iraniana è un chador nero, io comunque cerco di rappresentare tutti gli aspetti della questione.
E questo dipende dalla mia situazione personale”.

Diamo dunque uno sguardo alla visione dall’interno di uno di quei soggetti che sembra inevitabilmente essere sempre rappresentato dall’esterno: le donne di Shadi Gadirian.

“I am a woman and I live in Iran. I am a photographer and this is the only thing I know how to do. I began work after completing my studies. Quite by accident, the subjects of my first two series were "women". However, since then, every time I think about a new series, in a way it is related to women.

It does not make a difference to me what place the Iranian woman has in the world because I am sure no one knows much about it.

Perhaps the only mentality of an outsider about the Iranian woman is a black chador, however I try to portray all the aspects of the Iranian woman. And this completely depends on my own situation”.

Let’s take a look from the 'inside' of one of those subjects that almost inevitably we experience as represented from the 'outside': the women of Shadi Gadirian.

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Monday, March 24, 2008

Lettere mai aperte

Jari Silomäki, from the series Personal War Stories.

Continuiamo ad andare verso nord con un altro fotografo finlandese, Jari Silomäki. I suoi lavori sono degli esempi molto belli di una fusione di diario intimo, riflessione sul mondo che ci circonda e indagine sui modi di rappresentarlo, mettendo in scena in modo davvero interessante il conflitto tra i nostri occhi che guardano e i codici visivi che possono invadere e colonizzare la nostra capacità di guardare e sentire realmente ciò che abbiamo davanti.
Nella serie Ordinary Towns on Ordinary Days, ad esempio, ci presenta una sequenza di immagini di varie città del mondo scattate con l’estetica di un reportage di guerra (mosso, granulosità, inquadrature storte, etc), accumulando una sensazione di violenza ed urgenza e proponendo quindi una riflessione su quanto queste sensazioni debbano essere considerate frutto del linguaggio fotografico che si usa, piuttosto che intrinseche all’argomento che si tratterebbe. Personal War Stories invece mette insieme immagini di cieli stellati con muri forati da proiettili, ritrovando le costellazioni nei fori delle pallottole e mostrando infine il narratore in posa davanti a questi fondali del suo tempo.
“Il mio lavoro descrive una generazione per la quale la guerra è distante perche accade altrove”, per usare le parole di Silomäki.
Infine, tra i vari diari intimi segnalo Rehearsals for Adulthood, una serie molto bella di autoritratti, “la lotta di un giovane uomo con il proprio sé, le relazioni con le donne o la mancanza di queste… affrontare gli aspetti sia tragici che comici della propria vita”.

We keep going north with another Finish photographer, Jari Silomäki. His works represent a quite beautiful fusion of personal diary, thoughts on the world around us as well as investigation on the many ways to visually represent it. Silomäki’s images deal with the conflict between our own eyes and the many visual codes that can invade our ability to look at things and to really feel what’s in front of us.
In the series
Ordinary Towns on Ordinary Days, for example, he shows us a sequence of images of several different towns shot with the aesthetics of war photography (blur, grain, crooked framing, etc), creating a feeling of violence and urgency and thus showing how these feelings should be considered part of the photographic language rather than inherent to the subject we’re dealing with.
Personal War Stories puts together images of night skies and bullet-ridden walls from war zones, then tracing the constellations from the bullet holes and finally showing the narrator posing in front of these backgrounds of our time.
“My work describes a generation for whom war is distant because it happens elsewhere”, to use his own words.
Last, a mention for
Rehearsals for Adulthood (among his many ‘private’ diaries), quite a beautiful sequence of self-portraits, “a young man’s struggle with the self, with women or lack thereof as well as ideological identity… photography is the narrator’s means of choice to deal with both tragic and comical aspects of his life”.

Jari Silomäki, from the series Rehearsals for Adulthood.

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Saturday, March 22, 2008

Freddo cane


Terre gelide e sconfinate, con i loro abitanti che dividono lo spazio con la muta saggezza di animali che sembrano conoscere il segreto di quella natura impietosa: Pentti Sammallahti è uno dei principali fotografi finlandesi, anche promotore dal 1979 della Opus Series, una serie di libri d'artista di fotografi finlandesi che vede tra gli autori degli ultimi anni anche Joakim Eskildsen.
Qui immagini dal suo lavoro Honnos My Fiddler sugli zingari della Transilvania, qui Andante, una fotosequenza musicale sui passanti per le strade di Tallinn in Estonia.
Altre immagini di Sammallahti qui ed un testo dello scrittore inglese John Berger.

Frozen and endless lands with their inhabitants, who share their own space with the mute wisdom of animals that seem to know the secret of that merciless nature: Pentti Sammallahti is one of the main Finnish photographers, who in 1979 also initiated the
Opus Series, a collection of artist's book by Finnish photographers (Joakim Eskildsen is among the authors of these last years).
Also take a look at
Honnos My Fiddler, his work on the gypsies of Transylvania, and Andante, a musical photosequence on the passers-by along the streets of Tallinn, Estonia.
More images by Sammallahti here and a text by English novelist John Berger.

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Friday, March 21, 2008

Il proprio lavoro


Guardando la maggior parte del lavoro commissionato realizzato da Nadav Kander si può pensare che sia un grande professionista, in grado di padroneggiare i vari linguaggi fotografici con maestria e consapevolezza. Poi però ci si trova davanti la serie impressionante dei suoi lavori personali e si realizza che è un autore davvero di grande livello, complicando le cose per ogni tipo di speculazione (molto presenti in fotografia, del resto) sul rapporto (o sul conflitto) tra ricerca personale e fotografia ‘applicata’.

Looking at most part of Nadav Kander’s assigned work one might think he’s a great professional, able to master any photographic language with great skill and knowledge. But then you find yourself in front of the impressive sequence of all his personal works and you realize that he’s truly a great author, thus messing things up for any kind of speculation (quite frequent in photography, by the way) over the relationship (and the conflict) between personal research and applied photography.

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Thursday, March 20, 2008

Altre Germanie

© Timm Rautert

Tim Atherton ha appena pubblicato sul suo blog Muse-ings un'interessante panoramica di autori tedeschi che amplia le riflessioni che abbiamo recentemente fatto in una conversazione con Jörg Colberg sul concetto di 'fotografia tedesca'.

Tim Atherton just posted on his blog Muse-ings an interesting survey of German photographers that adds elements to the thoughts we recently shared with Jörg Colberg about the notion of 'German photography'.

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Notti verticali

© Teodoro Lupo

Alberi persi nella neve o nella notte, misteriose scene verticali che popolano due lavori che si parlano tra loro: la serie Da qui come cieco del fotografo italiano Teodoro Lupo e il lavoro Forest dell'artista della Repubblica Ceca Jitka Hanzlová.

Trees lost in the snow or into the night, mysterious vertical scenes inside two series of images that speak one another:
Da qui come cieco (As if blind from this moment, roughly translated) by Italian Teodoro Lupo and Forest by Czech artist Jitka Hanzlová.

© Jitka Hanzlová

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Tuesday, March 18, 2008

Domande a Jörg Colberg

August Sander, The Painter Gottfried Brockmann, Cologne, 1924.

We shared some thoughts about contemporary photography with Jörg Colberg, the author of Conscientious. Among other things we talked about the fact that Germany is larger than Düsseldorf, about globalization in photography and what can be seen from abroad of the 'Italian photographic scene'.


Abbiamo scambiato qualche idea sulla fotografia contemporanea con Jörg Colberg, l'autore di Conscientious. Tra le altre cose, si è parlato del fatto che la Germania è più grande di Düsseldorf. della globalizzazione in fotografia e di cosa si riesce a scorgere da fuori della 'scena italiana'. La versione in italiano è alla fine del testo inglese.

HB How was the Internet scene regarding photography when you started blogging and how did it change in these years?

JC When I started compiling photography on my blog, the internet was not widely seen as a way to disseminate photography. Back in 2003, I discovered the work of the Bechers and their pupils, and there was no simple way to look at it other than hoping to find something here and there using search engines. So I thought someone should compile all those links in one place, so that anyone interested in this kind of art would have a place to go. That’s how and why I started my blog.

Since then, of course, things have changed a lot, even though the changes appear to be somewhat regional. Some countries, most notably the US, have been much more willing to embrace this development than others, and of course I need to single out Germany. If you just took the internet presence of German photographers you would never guess that photography from Germany has become such an important part of contemporary photography.

HB You often write, or interview photographers, on the issue of German photography, referred to the legacy of August Sander, the Bechers, their students: your question is whether this authors became ‘the’ German photography, and made this expression the name of an aesthetics. What is your own opinion about it?

JC For the most part, I find such categories not very helpful at all. I’m very adverse to nationalism and patriotism, and lumping things together into one big blob is pointless. For example, while it is true that photography from Düsseldorf (the Bechers and their students) has become very famous - and that supposedly is now ‘German’ photography – what are we to make of, say, those famous German photographers who do not fit into that category? What about Jürgen Teller or Wolfgang Tillmanns? Thomas Demand? And what about all those other German photographers whose work doesn’t fit into the Düsseldorf style and who are not widely known internationally?

Bernd and Hilla Becher, Sphere, 1960s.

At some stage, I think it was when a museum in Boston presented a show with a lot of Düsseldorf work (plus the usual Sander) as ‘German photography’ I just had enough, and I decided to expose people to a wider view. I simply don’t like stereotypes, and I don’t like such simplifications which in part are simply based on intellectual laziness. And that’s quite independent of which country we’re actually dealing with.

I can see, though, why people think the Düsseldorf stuff is ‘German’ photography: It neatly fit in with all the other stereotypes about Germans, doesn’t it? But even if you just look at Thomas Ruff’s work – he is not only German, but also part of that school, your whole idea of a ‘German’ aesthetics completely collapses.

HB You frequently expressed your admiration for the work of Andreas Gursky, and wrote that some of his images are your personal favorite among contemporary photography. What makes Gursky’s work so great for you, what makes his images different from the many deadpan urban and natural landscape photographers of these years? For example, what makes his ‘objectivity’ different from that of Thomas Struth, for example?

JC I am so tired of the word ‘deadpan’!

What makes Gursky’s work different from what other people do is what he tries to do with his work and how he does it. Gursky has quoted the painting The Battle of Alexander at Issus by Albrecht Altdorfer as inspiration of his work, and when you look at his latest work, you can see that influence. Creating such art work using photographic means I find very interesting. How else to show globalization? Sure, you can run around with your camera in dozens of countries and take photos of empty parking lots, but in the end there is no representation of the scale. If anything, one of globalizations’s most important features is the vastness of everything, and Gursky shows that directly. So with these views of events, often taken from high view points, the whole concept of ‘deadpan’ becomes somewhat meaningless, and we are shown our world, albeit in a way that we don’t get to see very often.

Albrecht Altdorfer, The Battle of Alexander at Issus, 1529.

As for the term ‘objectivity’ I’m not sure whether one even would want to start arguing about that in the context of Gursky’s work – given that many of the photos are actually digital composites. I see them more as works of art; I suppose one could still talk about ‘objectivity’ (or whatever else art theorists like to talk about), but I’m not interested in that.

Andreas Gursky, Kuwait Stock Exchange, 2007.

HB When we discovered Joel Sternfeld’s book American Prospects, one of our first thoughts was that his images had that vision and richness that many later became used to consider part of the so-called ‘German’ style of landscape photography, thus making him one of those who anticipated and prepared the subject matters and the large colour prints wave of these years. What is your opinion about it?

JC I think your comparison shows how useless categorizations can become. As far as I know, there are some connections between Sternfeld and some German photographers. If you look at Joachim Brohm’s Ruhr work, that looks almost like Sternfeld (and I think someone told me they had met and worked together). It’s probably true that American photographers like Sternfeld or Stephen Shore paved the way for the acceptance of colour photography in the art world.

But there is an important issue with large prints that people have often overlooked and that Jerry Spagnoli (and some other people) pointed out to me: You can only produce large prints, if the machinery to do that exists. And that wasn’t the case for a long time. So to a large extent, large prints started to invade the art world once it became feasible to produce them.

Joel Sternfeld, Wet n' Wild Aquatic Theme Park, Orlando, Florida, September 1980.

HB Contemporary China is one of the great themes of today’s photography, with many authors making large images of the emerging architecture and the disappearance of the old urban tissue. Several of these works are quite, let’s say, similar, and a great part of them can actually be ascribed to that style we’ve been calling ‘German’: the interesting thing is that these images are made by European, North American and also Chinese authors, to make some examples. How did it happen that authors from different cultures converged in a common aesthetics facing this same great issue? Does it come from the subject, from the market, or what else?

JC This is such a great question to waffle on for a few hours! But seriously, I don’t think there is a simple reason for the convergence of many artists from different countries on one aesthetic. It’s probably a combination of technical reasons (digital technologies plus the ability to produce large prints) with an ever increasing exposure of different cultures to the same kind of entertainment and mass culture.

You know, this whole point of how we are all so similar now I actually find quite a bit less interesting than many other people. Sure, I buy the same shoes as someone in Australia or China – but then that’s a very meagre point to talk about for a long time, isn’t it? I think instead of talking about how globalization reaches everybody etc. etc. I think it would be way more important to look at not whether people in New York, Paris and Shanghai wear the same shirts, but instead what regional differences stick around despite globalization. I think the idea that if globalization just lasts long enough all cultural differences will disappear is simply wrong.

For example, if you go to McDonald’s (which I actually never do, but I know enough people who do) in different countries, you can see how they adapt their menu locally. That I find much more interesting than seeing McDonald’s buildings in different parts of the world. So I think there is a lot to be explored still, most of it underneath the superficial surface that so many people mistaken for what the issue is.

Sze Tsung Leong, Wangjing Xiyuan Third District, Chaoyang District, Beijing, 2003.

HB Colour seems to dominate more and more contemporary photography, both in the news/editorial and in the fine art world. It seems like the more the digital wave advanced, the more b/w photography lost ground. Color apparently took both realms of photography, the role of the photographic document and that of the artistic image. Why do you think this happened?

JC Because our world has colours. If you want to document the world then a colour photo is a more accurate representation than a b/w photo. And just like most painters work in colour, it’s not surprising to me that most photographers now do, too.

And I think you have to ask yourself “Why b/w?” I’m sure you can do a lot of interesting stuff in b/w, but for me the question is why? Why not colour? I remember I once read that Tod Papageorge always asks “Why colour?”. For one of the teachers at one of the most important photography schools in the US, at the beginning of the 21st century the question should be “Why not colour?”- especially when dealing with students.

HB Fine art photography is quite well established in the art galleries, museums and in the art market world, and yet a considerable amount of speculations over the nature of photography is always produced and reproduced. Which is the reason for this, why the medium of photography keeps being analyzed and questioned, why didn’t we manage to see it just as a tool to produce images yet?

JC We have to realize that the medium is still changing, and lots of people are still stuck in the 1970s, never having even accepted the switch to colour. And a very large number of people is still extremely uncomfortable with digital work. But it’s not hard to imagine how people in fifty years will look back to discussions like these: They’ll probably shake their heads about these kinds of pointless discussions.

But I think to a large extent we still have these debates because even though photography has arrived in the art world, we still don’t really accept it. Somewhere we all still believe that a photograph shows something real, and because of that seeing all these developments makes us feel uncomfortable. I think this will pass. I, for one, don’t spend too much time thinking about it – it would only get in the way of enjoying contemporary photography.

HB One last question: can you tell us something about your favorite Italian photographers? Seen from outside, do you sense there's any such thing as an Italian scene?

JC My favourite Italian photographer is probably Massimo Vitali. As for whether there's an Italian scene that's very hard for me to tell since I look at a lot of photography online, and I don't easily see a big Italian scene online - at least not one that communicates in English. I am sure there are tons of very interesting Italian photographers, but unless I can make it to Italy or they decide to be more active online (and in English, which I can read and understand) I don't think I'll be able to discover them easily.

Massimo Vitali, Catania Under the Volcano, 2007.


TRADUZIONE ITALIANA

HB In quali modi la fotografia circolava su Internet al tempo in cui hai cominciato il tuo blog, e come questa presenza è cambiata negli anni?

JC Quando ho cominciato a raccogliere lavori di fotografia sul mio blog Internet non aveva grande considerazione come strumento di diffusione. Nel 2003, quando ho scoperto il lavoro dei Becher e dei loro studenti, non c’era un modo semplice di guardare le loro immagini, al di fuori del cercare qua e là tramite i motori di ricerca. Così pensai che qualcuno avrebbe dovuto raccogliere insieme tutti quei link, in modo che chiunque fosse interessato a questa forma d’arte avrebbe avuto un posto dove andare a cercare. Questo è il modo in cui ho iniziato il mio blog.

Molto è cambiato da allora, chiaramente, anche se i cambiamenti sembrano accadere in modo regionale. Alcuni paesi, soprattutto gli Stati Uniti, si sono mostrati molto più inclini ad abbracciare questo sviluppo di altri, e poi ovviamente devo sottolineare il caso tedesco. Se tu considerassi soltanto la presenza su internet di fotografi tedeschi, non avresti modo di realizzare quanto la fotografia tedesca sia diventata una parte così importante della scena contemporanea.

HB Hai spesso scritto o intervistato fotografi sul tema della fotografia tedesca, in riferimento all’eredità di August Sander, dei Becher e i loro studenti: in genere le tue domande vertono su se tali autori siano diventati ‘la’ fotografia tedesca, facendo di tale espressione il nome di una vera e propria estetica. Qual è il tuo pensiero su questo tema?

JC Trovo che le categorie nella maggior parte dei casi non siano di grande aiuto. Provo una forte avversione per il nazionalismo e il patriottismo, e mescolare le cose in un gran calderone non ha molto senso. Ad esempio, se da una parte è vero che la fotografia di Düsseldorf (i Becher e i loro studenti) è diventata molto importante – e si presume che oggi sia ‘la’ fotografia tedesca – d’altra parte però cosa dovremmo farne di tutti i fotografi tedeschi importanti che non rientrano in tale categoria? Cosa dire di Jürgen Teller o Wolfgang Tillmanns? O Thomas Demand? E cosa fare di tutti gli altri fotografi tedeschi il cui lavoro non rientra nello stile di Düsseldorf e che non hanno fama internazionale?

Ad un certo punto, penso sia stato quando un museo di Boston ha presentato come ‘Fotografia Tedesca’ una mostra con molti lavori da Düsseldorf (più il solito Sander), ho sentito che non ne potevo più e ho deciso di proporre una visione più ampia della cosa. Non mi piacciono gli stereotipi e non mi piacciono le generalizzazioni, che in parte sono fondate solo su pigrizia intellettuale. E questo ha poco a che fare con la nazione di cui stiamo parlando.

E si può intuire, comunque, perché mai tante persone pensano che lo stile Düsseldorf sia la fotografia ‘tedesca’: si sposa bene con tutti gli altri stereotipi sulla Germania, no? Ma poi, se guardi il lavoro di Thomas Ruff – che non solo è tedesco, ma proviene anche da quella scuola, tutta questa idea di un’estetica ‘tedesca’ crolla su sé stessa.

HB Più volte hai espresso la tua ammirazione per il lavoro di Andreas Gursky e hai scritto che alcune delle sue opere sono tra le tue favorite nella fotografia contemporanea. Che cosa rende il lavoro di Gursky così importante per te, cosa lo rende diverso dai tanti paesaggi naturali e urbani deadpan (‘neutrali’) di questi anni? Ad esempio, in cosa si differenzia dallo stile ‘oggettivo’ di Thomas Struth?

JC Sono così stufo della parola deadpan!

Quello che distingue il lavoro di Gursky da quello di altre persone è ciò che cerca di realizzare e il modo in cui lo fa. Gursky ha citato La Battaglia di Isso di Albrecht Altdorfer come un’ispirazione per il suo lavoro, e quando guardi le sue ultime immagini puoi scorgere questa influenza. Trovo molto interessante il fatto di realizzare opere d’arte di questo tipo utilizzando strumenti fotografici. In quale altro modo si può rappresentare la globalizzazione? Certo, puoi andare in giro con la tua macchina fotografica in decine di paesi diversi e fotografare parcheggi vuoti, ma in fondo non c’è rappresentazione della dimensione del discorso. Tra tutte le cose, una delle caratteristiche principali della globalizzazione è la vastità, e Gursky lo mostra in modo diretto. Con simili vedute di eventi, spesso prese da punti di vista elevati, tutto il discorso intorno al concetto di deadpan perde di senso, ci viene mostrato il nostro mondo, anche se in un modo che non capita di frequente.

Per quanto riguarda l’oggettività, non sono convinto si possa porre la questione nell’ambito del lavoro di Gursky, considerando che molte sue fotografie sono assemblati digitali. Le vedo più come opere d’arte.
Immagino si possa comunque parlare di oggettività (o di qualsiasi altra cosa i teorici dell’arte amino parlare), ma non è una cosa che mi interessa.

HB Uno dei primi pensieri che viene alla mente guardando American Prospects di Joel Sternfeld è che le sue immagini propongono proprio quella visione e quella ricchezza che molti dopo hanno solitamente considerato come parte integrante del cosiddetto ‘stile tedesco’: questo lo colloca tra coloro che hanno anticipato e preparato la strada per i temi e le grandi immagini a colori di questi anni. Qual è la tua opinione a riguardo?

JC Penso che questo paragone dimostri quanto possano essere inutili delle categorizzazioni. A mio parere ci sono nessi tra Sternfeld e alcuni fotografi tedeschi. Ruhr, un lavoro di Joachim Brohm, sembra quasi opera di Sternfeld (e mi sembra di aver sentito che si sono incontrati e hanno lavorato insieme). Probabilmente è vero che fotografi americani come Sternfeld o Stephen Shore hanno preparato la strada per l’ingresso della fotografia a colori nel mondo dell’arte.

Ma c’è anche un importante discorso da fare sulle stampe di grande formato, spesso sottovalutato, che Jerry Spagnoli e altre persone mi hanno sottolineato: puoi realizzare stampe grandi solo se ci sono i macchinari per farle. E così non è stato per molto tempo. Dunque, le stampe di grande formato in gran parte hanno cominciato a invadere il mondo dell’arte nel momento in cui è stato possibile produrle.

HB La Cina contemporanea è uno dei grandi temi della fotografia di oggi, con molti autori che realizzano grandi immagini delle architetture sorte recentemente, ma anche della scomparsa del vecchio tessuto urbano. Molti di questi lavori sono, diciamo, piuttosto simili; una gran parte di essi può in effetti essere ascritta a quello stile che stiamo chiamando ‘tedesco’. La cosa interessante è che queste immagini sono realizzate da autori europei, nordamericani o cinesi, per fare degli esempi. Come accade che autori da diverse culture convergano in un’estetica comune nell’affrontare questo grande tema contemporaneo? Dipende dai soggetti, dal mercato o da cos’altro?

JC Questo è un tema perfetto per specularci sopra per ore! Scherzi a parte, non credo ci sia una semplice ragione per la convergenza di molti artisti da diversi paesi verso un’estetica comune. Probabilmente si tratta della combinazione di motivazioni tecniche (tecnologie digitali, più la possibilità di realizzare grandi stampe), insieme alla crescente esposizione che culture differenti hanno rispetto allo stesso tipo di intrattenimento e di cultura di massa.

Tutto questo discorso sul fatto di come oggi siamo tutti un po’ uguali è una cosa che mi interessa molto meno che a tanti altri. Certo, compro le stesse scarpe che si comprano in Australia o in Cina, ma mi sembra un tema piuttosto misero da discutere a lungo, no? Piuttosto che parlare di come la globalizzazione raggiunga tutti quanti, bisognerebbe osservare quali differenze geografiche persistono nonostante la globalizzazione, invece di stare a guardare il fatto che la gente a New York, Parigi o Shangai porta le stesse t-shirt. Trovo semplicemente sbagliata l’idea che se la globalizzazione continuerà le differenze culturali siano destinate a scomparire.

Ad esempio, se vai da McDonald’s (cosa che io non faccio ma conosco diverse persone che ci vanno) in paesi diversi, noterai che il menu viene adattato alla cucina locale. Questa mi sembra una cosa molto più interessante che vedere i locali di McDonald’s in varie parti del mondo. Penso ci sia ancora molto da esplorare, e la maggior parte di ciò si trova sotto la superficie che tante persone scambiano per la sostanza del discorso.

HB Il colore sembra dominare la fotografia contemporanea, sia nel mondo editoriale e del news che in ambito artistico. L’impressione è che più l’onda digitale è avanzata, più la fotografia in bianco e nero ha perso terreno. Il colore sembra aver preso possesso dei due domini della fotografia, quello del documento e quello dell’immagine artistica. Come ritieni sia accaduto?

JC Perché il mondo è a colori. Se vuoi documentare questo mondo, una foto a colori è una rappresentazione più adeguata di una foto in bianco e nero. E poi la maggior parte dei pittori lavora con il colore, quindi non mi sorprende che lo faccia anche la maggior parte dei fotografi.

Penso ci si debba chiedere “Perché in bianco e nero?”. Si possono sicuramente fare molti lavori interessanti in bianco e nero, ma per me resta da chiedersi il perché. Perché non a colori? Mi ricordo di aver letto che Tod Papageorge chiedeva sempre “Perché a colori?”. Un insegnante di un’importante scuola americana di fotografia all’inizio del XXI secolo dovrebbe chiedere “Perché non a colori?”, specialmente ai propri studenti.

HB La fotografia si è consolidata nelle gallerie d’arte, nei musei e nel mercato dell’arte, tuttavia resta viva la tendenza a produrre e riprodurre teorie su di essa. Come mai il medium fotografico continua ad essere analizzato e interrogato, perché non si riesce a considerarlo semplicemente come un mezzo per produrre immagini?

JC Dobbiamo renderci conto che la fotografia è ancora in evoluzione, ma molte persone sono rimaste agli anni ’70, non hanno mai accettato il passaggio al colore. Tanti ancora sono molto a disagio con il digitale, ma non è difficile immaginare come le persone tra cinquant’anni ripenseranno a discussioni come queste: probabilmente scuoteranno la testa per queste questioni senza senso.

Ma credo che in gran parte discutiamo ancora di tutto questo perché ancora non riusciamo ad accettare che la fotografia sia approdata nel mondo dell’arte. In qualche modo ancora crediamo che una fotografia mostri qualcosa di vero, per questo motivo osservare tutte queste evoluzioni ci mette a disagio. Penso che questo cambierà. Io comunque non penso molto a tutto ciò, mi rovinerebbe soltanto il piacere di godere della fotografia contemporanea.

HB Un’ultima domanda: puoi dirci quali sono i fotografi italiani che preferisci? Vista da fuori, hai la percezione di qualcosa che somigli a una ‘scena italiana’?

JC Probabilmente il fotografo italiano che più apprezzo è Massimo Vitali. Per quanto riguarda la percezione di una scena italiana, è molto difficile da dire per me, poiché guardo molta fotografia online e non mi è capitato di scorgervi una scena italiana significativa, almeno non una che comunichi in inglese. Sono sicuro che ci sono moltissimi fotografi italiani interessanti, ma a meno che io non venga in Italia o che decidano di essere più attivi online (ed in inglese, che posso leggere), dubito che li scoprirò facilmente.

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Thursday, March 13, 2008

Visione d'insieme

Trine Søndergaard and Nicolai Howalt, from the series Tree Zone.

Guardare il lavoro nato dalla collaborazione di due fotografi differenti (animali facilmente solitari, spesso gelosi del momento di lavoro chiamato 'scatto') può essere molto interessante (ed è anche piuttosto infrequente): metterlo a confronto con le loro produzioni individuali, cercare le tracce della fusione dei due stili oppure osservare l’alternarsi della predominanza di uno o dell’altro.
Trine Søndergaard, ad esempio, nell’incontro con Nicolai Howalt (di cui abbiamo già parlato) mette da parte l’asprezza e la frontalità dei suoi lavori degli anni precedenti e si abbandona ad un lirismo così diverso e così semplicemente bello, i cui frutti sono il libro How to Hunt e le serie Tree Zone e Dying Birds (presenti, ovviamente, sui siti di entrambi).

Looking at the work born from the collaboration of two different photographers (quite lonely animals, often jealous of the phase of their work called ‘click’), can be quite an interesting experience (and unfrequent, too): you can compare their collective work with their solo productions, seek for traces of the fusion of the respective styles or watch the alternation of the predominance of one over the other.
Trine Søndergaard, for example, in her works with Nicolai Howalt (whom we already mentioned) abandoned the harshness and the immediacy of her works from the previous years, delivering herself to a lyricism which is so different, and so simply beautiful, whose fruits are the book
How to Hunt and the series Tree Zone and Dying Birds (to be found on the websites of both, of course).

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Wednesday, March 12, 2008

Micromega

Wang Qingsong, The Glory of Hope, 2007.

Torniamo sul tema della staged (o constructed) photography per proporre due esempi di scala opposta, macro e micro.
Il primo lavoro che segnaliamo è quello del fotografo cinese Wang Qingsong, autore di messe in scena allegoriche di vaste dimensioni, spesso con scenografie e grandi gruppi di persone coinvolte. I tableaux di Qingsong sono delle riflessioni visive sull’avanzata della logica di mercato nella società cinese e sulla progressiva spersonalizzazione e perdita di cultura che ne conseguono.
Un esempio del suo lavoro può essere visto a Roma in questi mesi, all’interno della mostra collettiva Cina XXI secolo. Arte tra identità e trasformazione al Palazzo delle Esposizioni.

Dalla Cina all’America (e dal grande al minuscolo) con le immagini di Lori Nix, dove l’estetica dei disaster movies hollywoodiani degli anni ’70 si mescola con i ricordi della sua infanzia nel Kansas rurale, piena di ricordi di disastri reali come inondazioni, invasioni di insetti o tornadi.
Le atmosfere presenti in molte sue immagini ricordano il lavoro di un altro miniaturista della fotografia, il nostro amato Paolo Ventura.

Lori Nix, Ice storm, from Accidentally Kansas.

Let’s go back to staged (or constructed) photography with two examples of opposite scale, macro and micro.
The first one is Chinese photographer Wang Qingsong, whose images are often made with large sets and large groups of people. His plates revolve on the advance of market ideology inside Chinese society and on the progressive dehumanization and the loss of a real culture that derive from it.
The exhibition
21st Century China. Art between Identity and Transformation, in Rome in these months at Palazzo delle Esposizioni, is a chance to have a glimpse of his work.

From China to USA (and from large to small) with the photographs by Lori Nix: her images are a mix of the aesthetics of Hollywood disaster movies from the ‘70s and the memories of her childhood in rural Kansas, full of real disasters like floods, insect infestations or tornadoes.
Lots of things in her work remind of another ‘miniature photographer’, our beloved Paolo Ventura.

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Tuesday, March 11, 2008

Entomologia


Per dirla in poche parole, i lavori di Lois Hechenblaikner sull’iconografia del turismo di massa sono un chiaro esempio di 'fotografia entomologica', dove le masse umane sono rappresentate pressappoco come insetti, mentre i paesaggi ‘antropizzati’ sono riempiti dei segni di un’oscura necessità pratica, lasciandoci quella sensazione che avremmo osservando la struttura di un formicaio e cercando di decifrarla.
Da rivedere in parallelo con le immagini di Hiromi Tsuchida.

Simply put, the photographs by Lois Hechenblaikner on the iconography of mass tourism are quite an example of ‘entomologic photography’: human crowds are depicted almost like masses of insects, while the ‘anthropologized’ landscapes are filled with elements of oscure practical functions, leaving us with the kind of feeling we might have while trying to decipher the structure of an anthill.
Interesting to compare this project with the work of Hiromi Tsuchida.

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Monday, March 10, 2008

Immaginari confusi

© Maleonn

Maleonn
è un fotografo cinese, autore di una staged photography molto elaborata e anti-naturalistica, con le quali ci presenta visioni molto complesse per simboli e stili, dove tracce di antiche culture orientali spesso sono ibridate con topoi tendenzialmente paranoici appartenenti alle varie culture di massa contemporanee (questa cosa si è scritta da sola, il trionfo del déjà vu della scrittura applicata alla fotografia…).
Il suo lavoro ci dà la possibilità di dare un’occhiata ad altri lavori chiave di staged photography, prendendo come esempio uno dei sovrani incontrastati del genere, Jeff Wall (grazie a Heading East per la mole di link su di lui). Per chi non le conosca già, guardate la curiosa risonanza tra l’immagine di Maleonn qui sopra e quella di Wall, seguita dal lavoro del pittore e incisore Hokusai (lo conoscerete tutti, quanti suoi libri nelle mani delle persone che a Natale si aggiravano per le librerie...) che Wall rimette in scena.
Grazie ancora ad Alberto per la segnalazione.

Jeff Wall, A Sudden Gust of Wind, 1993.

Hokusai, 36 Views of Mt Fuji - Ejiri in Suruga Province.

Maleonn is a Chinese photographer, whose staged photography is quite elaborate and anti-naturalistic. It is made of series of quite complex visions, in terms of symbols and style, where echoes of ancient eastern culture is often hybridated with quite paranoid topoi taken from different contemporary mass cultures (this thing came out by itself, the triumph of déjà vu of writing about photography…).
Maleonn’s work give us the chance to take a glimpse at some of the key works of staged photography, taking as an example one of the undisputed kings of this photographic genre, Jeff Wall (thanks to Heading East for this great amount of links). Take a look, in case you never saw them, at the curious resonance among Maleonn’s image above and the one by Wall, followed by the image by painter and print-maker Hokusai (you probably will know him, there were so many books of his works in the hands of people wandering around bookstores around Christmas time...) that Wall re-staged in his work.
Thanks again to Alberto for the tip.

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Sunday, March 9, 2008

...a tavola!


Nella libreria dello spazio FORMA di Milano abbiamo trovato "Interno Italiano" un progetto fotografico realizzato dagli studenti del Master Photography and Visual Design di NABA e FORMA Centro Internazionale di Fotografia, con il coordinamento di Francesco Jodice. Il fotogiornale (così si autodefinisce), per temi, traduce in immagini il suo titolo. La pubblicazione è davvero interessante anche se spesso il pensiero della "cura" è più forte delle stesse fotografie, così che sia la narrazione che l'esperienza fotografica in alcuni casi sono ridotte all' eleborazione della brillante idea che le ha ispirate. Comunque all'interno ci sono vari progetti molto belli e su tutti ci piace segnalare quello di Alessandro Sambini, "Ghè Pronto".

In the FORMA’s bookstore (Milano) we found “Interno Italiano", which is a photographic project made by FORMA and NAPA’s Master Photography and Visual Design students, under the supervision of Francesco Jodice. The “fotogiornale” (so the project is called), trough a series of themes, translates into images its title. The project is quite interesting, even if the very idea of it is somehow stronger than the images themselves. Thus both the narrative aspect and photographic experience are sometimes confined to the elaboration of the idea which had inspired them. By the way, the fotogiornale includes some very beautiful projects, and we’d like to point out Alessandro Sambini’s one, called “Ghè pronto”.

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Dietro mura discrete


Nella città costiera di Sidon, nel Libano meridionale, il fotografo Hashem El Madani ha ritratto nel corso di 50 anni quasi tutta la popolazione, nel suo studio o per le strade. Le mura che proteggevano il suo luogo di lavoro hanno prodotto immagini di cittadini libanesi che giocano con le loro stesse immagini, interpretando personaggi della loro fantasia. Si tratta di un’enorme archivio che sta venendo fuori grazie al lavoro che Madani sta svolgendo con Akram Zaatari, uno dei fondatori della Fondazione Araba per l’Immagine, e di cui uno dei frutti è Studio Practices, la raccolta di ritratti in studio realizzati negli anni da El Madani.
Qui potete trovare immagini dal libro (andate su ‘Collection’, poi ‘Artists’ e poi ‘El Madani & Zaatari’ sotto la lettera Z), qui potete trovare molte immagini di El Madani usando la funzione ‘search’ (soltanto icone piccole, a quanto pare).

In the coastal town of Saida in southern Lebanon, photographer Hashem El Madani has been photographing for 50 years almost all the population living there, both in his studio or out in the streets. The walls protecting his studio produced images of Lebanese people playing with their own images, acting like carachters of their own fantasy. It is quite a vast photographic archive coming to light, thanks to the work that Madani is carrying on with Akram Zaatari, one of the founders of the Arab Image Foundation. One of the results of this work is
Studio Practices, a collection of studio portraits made by Madani in the past decades.
Here you can find images from the book (just go to ‘Collection’, then ‘Artists’ and then ‘El Madani & Zaatari’ under the letter Z), here you can find images by Madani, using the search function (only thumbnails, apparently).

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Saturday, March 8, 2008

Scrivere con le immagini


Dopo il pittore di guerra Simon Norfolk, ecco un altro esempio di pensiero visivo dedicato all’attualità e ai grandi temi digeriti e ridigeriti dalla centrifuga dei mass media: Paolo Woods lo vogliamo ricordare anche noi, perché in fotografia preferiamo gli autori ai testimoni, perché ci piace quando un fotografo si cala nel mondo e non ci fa mai dimenticare che stiamo guardando il frutto del suo lavoro, non una qualche fantomatica traccia della realtà così com’è.
Qui uno slideshow di TIME sul suo lavoro in Iran con commento di Woods, qui un’intervista sui suoi libri precedenti, Caos Americano e Pianeta Petrolio.

After war painter Simon Norfolk, here’s another example of a visual intelligence devoted to explore today’s world and the great issues digested and redigested through mass media: we too want to remind Paolo Woods’ work, because in photography we prefer the authors to the witnesses, because we appreciate when a photographer plunges himself or herself into the world and never makes us forget that we are watching the fruits of the photographer's work, and not any supposed trace of reality exactly as it should be.
Here you can find a slideshow of his work in Iran from TIME, with Woods commenting, here an interview about his past works
American Chaos and A Crude World.

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Friday, March 7, 2008

We are back

Litografia di Nadar in pallone/Lithography of Nadar on Baloon, 1860 ca.

Di nuovo a casa e di nuovo con voi, dopo giorni di intenso lavoro.

Quindi subito una veloce segnalazione del lavoro di Brian Finke, di cui è da poco uscito il libro Flight Attendants, dedicato alle hostess delle compagnie aeree. Tutto il lavoro di Finke è dedicato a raccontare gruppi di persone la cui appartenenza comune è espressa in maniera visivamente molto forte, che sia una divisa di lavoro, i muscoli gonfiati del proprio corpo o i fiumi di birra bevuti assieme. Una miscela di finzione, sudore e affollamento che rende le fotografie di Finke quasi rumorose, come se guardando le immagini ferme di tutte quelle persone quasi si riesca a sentirne le loro voci e i suoni dei loro luoghi. Una generale atmosfera di plastica e sarcasmo, spalmata sopra corpi fin troppo presenti.
Siamo stati in qualcosa di simile proprio di recente…

© Brian Finke

Home again and again with all of you, after days of hard work.

A short mention of the work of Brian Finke, to start again. His new book
Flight Attendants has just come out, and all his work is devoted to depict groups of people whose common belonging is visually quite strong, whether it’s the uniform they wear, the muscles of their body, or the gallons of beer they drink together. It is a mix of fictitiousness, sweat and over-crowding that make Finke’s images almost noisy, as if by looking at them you could almost hear the voice of those people and the sound of those places. A general feeling of plastic and sarcasm, spread over ultra-real bodies.
We’ve been through similar things just recently…

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