Monday, December 31, 2007

Notti domestiche

© Tomoyuki Sakaguchi

Case e villette che si affacciano sulle strade deserte nelle notti di un sobborgo residenziale di Tokyo: Home di Tomoyuki Sakaguchi (trovato su From this moment) esplora il tempo sospeso fatto del sonno della vita suburbana, dove gli ingressi degli appartamenti celano strani ospiti (automobili, scooter, biciclette) che sembrano spiare Sakaguchi mentre si aggira nelle notti dell’espansione urbana giapponese.
Il suo lavoro digitale ci restituisce una luce clinica, dove i contorni sono rimarcati e le ombre non lasciano immaginare ciò che potrebbero nascondere, lasciando la sensazione di trovarsi in un teatro di posa durante le riprese di un film.
Vale allora la pena di ricordare, per chi non lo conoscesse, il lavoro di Todd Hido, dove la ricerca va in senso molto differente: nelle sue Homes at night (ripresa e stampa analogiche) la luce e le ombre della notte avvolgono le cose, mentre le finestre illuminate delle case ci lasciano ad immaginare quali vite stiano scaldandosi sotto i tetti spioventi delle loro case.
Qui un video che ci mostra Hido al lavoro, qui un’intervista con Jörg Colberg su Conscientious.

Houses and apartments overlooking empty streets in the nights of a residential Tokyo suburb: Home by Tomoyuki Sakaguchi (found at From this moment) explores the suspended time made of the sleep of suburban life, where the entrances of the houses hide strange guests (cars, scooters, bicycles) that seem like spying Sakaguchi as he wanders through the nights of the Japanese urban expansion.
His digital work shows us a clinical light, where the contours of things are emphasized and shadows won’t let you immagine what they could be hiding, leaving you with the feeling of being inside the set of a movie.
It is then worth to remember, for those who might not know him, the work of Todd Hido, where his research goes in a quite different direction: in his Homes at night (analog in shooting and printing) the light and the shadows of the night wrap all things, while the lit windows of the houses leave us wondering about the lives of the people warming under the sloping roofs of their houses.
Here a video showing Hido at work, here an interview with Jörg Colberg on Conscientious.

© Todd Hido

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Sunday, December 30, 2007

Momento decisivo


Niente di meglio per chiudere l'anno (e i primi tre mesi di vita del nostro piccolo Hippolyte) dei Classics in Lego di Balakov, trovati su Flickr.
Da non perdere anche le immagini dei set-up delle scene.

"Se la foto non è buona, vuol dire che non eri abbastanza vicino…"


Beh, per fotografare i Lego non c'è dubbio...

Buon 2008 a tutti.


Nothing better than the Classics in Lego by Balakov, found on Flickr, to close the year (and the first three months of the life of our baby Hippolyte).
Also don't miss the images showing the set-ups for the scenes.

"If your pictures aren`t good enough, you aren't close enough."

Well, no doubt if you're shooting Legos...

Happy 2008 to everyone.

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Wednesday, December 26, 2007

I quattro elementi


Abbiamo da poco ricordato forse l’unico esponente romantico della cosiddetta scuola di Düsseldorf, Elger Esser, è interessante adesso accennare alla sua controparte Axel Hütte. Dove Esser impasta, scalda i toni e apre le fughe delle sue vedute, Hütte separa e raffredda, realizzando paesaggi quasi astratti, idee innate del Nord e del Sud, del caldo e del freddo, della natura tropicale o della tundra rarefatta. Le sue immagini sono scene spesso inaccessibili, muri naturali, l’informale del pianeta.
Qui alcuni dei suoi notturni metropolitani, qui altre immagini e un testo in spagnolo sul suo lavoro.

We recently mentioned perhaps the only romantic representative of the so-called Düsseldorf school, Elger Esser, it is now interesting to talk about his counterpart Axel Hütte. While Esser mixes and warms his tones and discloses vanishing points in his vistas, Hütte separates and makes cold tones, creating almost abstract landscapes, innate ideas of North and South, of the heat and the cold, of the tropical nature or the rarified tundra. His images often show inaccessibile scenes, natural walls, the informal of the planet.
Here some of his urban landscapes at night, here more images and a text in Spanish about his work.

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Tuesday, December 25, 2007

Documenti personali


Jean-Christian Bourcart ha realizzato vari progetti con temi e stili molto differenti tra loro. Spesso emerge un legame con eventi cruciali del nostro tempo, altre volte utilizza la ricreazione di una sguardo che osserva o che spia per descrivere diversi aspetti della condizione umana, giocando con l'estetica documentaria messa al servizio di una visione soggettiva.

Jean-Christian Bourcart made several projects with subjects and styles quite different one from the other. A strong link with crucial events of our time is often the starting point, other times he uses the recreation of an eye that watches or spies to describe many aspects of the human condition, playing with the documentary aesthetic put at the service of a subjective vision.

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Sunday, December 23, 2007

Tanto tempo fa...


Harri Kallio ha viaggiato indietro nel tempo per mostrarci la vita dei dodo, gli sfortunati uccelli delle isole Mauritius che, incapaci di volare, si estinsero nel XVII secolo con l'arrivo dei portoghesi e degli olandesi, diventando la prima estinzione riportata storicamente e direttamente attribuibile all'uomo.
Come recita Wikipedia, la frase "fare la fine del dodo" significa 'estinguersi o diventare obsoleti, scomparire dall'uso comune, diventare una cosa del passato'.
Quanti poveri dodo intorno a noi... Qual'è il vostro?

Harri Kallio travelled back in time to show us the life of dodos, the unlucky flightless birds of the island of Mauritius, extinct in the middle XVII century with the arrival of the Portuguese and the Dutch, becoming the first extinction historically recorded and directly related to man.
As Wikipedia quotes, the verb phrase "to go the way of the dodo" means 'to become extinct or obsolete, to fall out of common usage or practice, or to become a thing of the past'.
So many poor dodos around us... Which is your own?

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Saturday, December 22, 2007

Albe cinesi


Sze Tsung Leong ha lavorato sulle frenetiche trasformazioni urbane della Cina contemporanea. Le sue immagini (grande formato, composizioni che spesso cercano la simmetria visiva) mostrano gli strati delle città che si disfano, lasciando spazio ai volumi giganti delle nuove costruzioni. Ovviamente Leong non è stato il solo ad occuparsi delll'argomento in questi ultimi anni: accanto a lui ci sono ad esempio le superstar Edward Burtynsky e, in parte, Robert Polidori.
Da leggere alcune interessanti considerazioni di qualche mese fa sul blog From this moment, dove ci si interroga sulle analogie visive tra questi fotografi (includendo anche Andreas Gursky): la domanda che ne viene fuori è se le immagini, nel loro somigliarsi, abbiano la loro principale qualità nella loro pura forza artistica oppure nell'approccio visivo sul contemporaneo e nell'idea di accesso a determinati luoghi che esse trasmettono.
Aggiungerei che con una fotografia in generale il dubbio da sciogliere sia anche se la sua forza risiede nella sua totalità in quanto immagine oppure nell'oggetto fotografato che mostra.
Bisognerà tornarci sopra...
Nel frattempo, un'intervista con Sze Tsung Leong.

Sze Tsung Leong worked on the frenetic urban transformations in contemporary China. His images (large format, compositions often aiming at visual simmetry) show the dissolving of the cities' layers, leaving space to the gigantic volumes of the new buildings. Leong obviously is not the only one to deal with the subject in these last years: next to him we have superstars Edward Burtynsky and, in part, Robert Polidori, for example.
Some interesting considerations were made a few months ago on the blog From this moment, where the question was about the visual analogies among these photographers (also including Andreas Gursky): doubt is if their images, in their resemblance, hold their main quality in their pure artistic force or rather in the visual approach to the contemporary and in the idea of access to certain spaces that they communicate.
I would add that when dealing with a picture, in general, the doubt is also if its own force is in the image it represents as a whole or in the photographed object that it shows.
We'll have to come back to this...

In the meantime, an interview with Sze Tsung Leong.

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Wednesday, December 19, 2007

Il paesaggio nel pallone


Hans van der Meer ha fotografato i campi di calcio delle serie minori di mezza Europa. Gli stadi non esistono e spesso l'erba sulla quale si gioca è la stessa che continua sul versante della collina.

Hans van der Meer
took pictures of football fields all over Europe, where minor leagues play. Stadiums don't even exist and often the grass on which you play is the same you have on the hill sides all around.

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Vedute tedesche


Elger Esser è il figlio romantico della scuola di Düsseldorf. I suoi mari e i suoi paesaggi, pur mantenendo la grandeur e la ricchezza di dettagli delle immagini dei suoi colleghi più anziani, hanno una qualità pittorica, dei toni delicatamente caldi e un'atmosfera sospesa assenti dalle imponenti analisi visive del contemporaneo che hanno reso la parola 'tedesco' una categoria estetica piuttosto che una nazionalità. Una conferma di ciò sta nei lavori recenti di Esser, dove addirittura ha riprodotto delle vecchie fotografie di mare per poi dipingerci sopra.
Una specie di ribellione al padre al contrario, dove alla geometria e alla 'contemporaneità' si risponde con praterie e poetici mari.
Una peculiarità della biografia di Esser rispetto alle altre superstar tedesche?
È cresciuto a Roma...

Elger Esser
is the romantic son of the Düsseldorf school. His seas and landscapes, although having the same grandeur and richness in details of the images of his older colleagues, have a pictorial quality, soft warm tones and a quiet atmosphere that are absent in the imposing visual analysis that made the word 'German' an aesthetic category rather than a nationality. To confirm that, Esser's recent works are reproductions of old sea photographs over which the German photographer even did some painting.
A sort of backwards rebellion against the father, where prairies and poetic seas are opposed to geometry and 'contemporaneity'.
One peculiarity of Esser's biography compared to the other German superstars?
He grew up in Rome...

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Tuesday, December 18, 2007

Pa(e/s)saggio Italiano


Andra Botto restituisce un'interpretazione visiva del paesaggio e dell'architettura che va oltre il documento. Da vedere le serie Goodbye,Alps!, INA casa e TAV.
Qui Botto intervistato da Andrea Tedesco.

Andrea Botto give us a visual interpretation of landscape and architecture which is far beyond a simple documentation. Worth to be seen the work Goodbye Alps!, INA casa and TAV. Here you can find the photographer interwieved by Andrea Tedesco.

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Come una volta


Jerry Spagnoli è autore di diversi lavori interessanti, ognuno fatto a partire da una scelta tecnica molto marcata e differente. Due esempi: Pantheon Series, grandi vedute e paesaggi urbani realizzati in grande formato con il foro stenopeico, dove un sole splendente occupa sempre il cielo, e poi le due serie di dagherrotipi, quella anatomica e quella documentaria.
Spagnoli ha anche aiutato Chuck Close nella serie di ritratti che a sua volta ha realizzato con le gloriose lastre d'argento.
Qui un'intervista.

Jerry Spagnoli
is the author of several interesting works, each of them made with a different and pronounced technical choice. Two examples: 'Pantheon Series', large format natural and urban landscapes made with a pinhole lens, where a shining sun always stays in the middle of the sky, and the two daguerreotype series, the anatomical and the documentary.
Spagnoli also helped Chuck Close making his own series of portraits with the glorious silver plates.
An interview here.

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Monday, December 17, 2007

Pose quotidiane


Spesso può capitare di osservare una o una serie di fotografie e mentre le si guarda può capitare di chiedersi quanto il fotografo sia intervenuto nella "costruzione della realtà" che ha fatto da traccia all'immagine. Altre volte questo dubbio è risolto a monte da una rappresentazione costruita dichiarata.
Con le serie Interièur e Dehors di Jean-Claude Delalande la domanda non si risolve ed il dubbio è centrale rispetto alla rappresentazione che l'autore fa del suo quotidiano e delle sue relazioni personali.

It can happen quite often to see a picture, or a series of pictures and - while watching- wonder how much the photographer was involved in the "construction of the reality" which produced the image. Some other times this question is solved a priori, by an explicit declaration of a set-up reality. In the case of the works Interièur and Dehors by Jean-Claude Delalande, the question stays unsolved and the doubt becomes the main point of the author’s representation of his daily-life and his personal relationships.

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Sunday, December 16, 2007

Dietro le quinte


Taryn Simon è conosciuta soprattutto per due lavori fotografici che hanno fatto e stanno ancora facendo un notevole giro di musei, fondazioni e gallerie d'arte contemporanea.
Il primo è The Innocents, ritratti di cittadini americani imprigionati ingiustamente.
Il secondo e più recente è An American Index of the Hidden and Unfamiliar, immagini di luoghi chiave della società americana che sono inaccessibili ai cittadini (Dogana, CIA, laboratori scientifici, etc.).
I due lavori sono molto diversi tra loro, il primo composto da ritratti in grande formato, realizzati proprio nei luoghi chiave che hanno provocato la detenzione ingiusta patita da queste persone, risollevando il problema delle fotografie e delle prove indiziarie che li hanno collegati a quei posti; il secondo ritrae invece misteriosi luoghi asettici con un effetto di sottile ironia o sarcasmo (un esempio è la sala della collezione artistica della CIA), con un estetica molto 'alla tedesca'.
L'impressione è che Taryn Simon realizzi i suoi progetti con un assunto teorico di partenza molto preciso, che poi realizza con immagini sulle quali è in grado di applicare esattamente un linguaggio visivo piuttosto che un altro. Il lavoro editoriale l’ha probabilmente aiutata in quest’abilità nel padroneggiare cambiamenti di linguaggio.
D'altronde un suo tema forte sembra proprio essere la questione del vedere: la sua attendibilità è il tema del primo lavoro, mentre nel secondo si parla dell'invisibilità e al tempo stesso dell'importanza di determinati luoghi.

Taryn Simon is widely known mainly for two photographics works that made and are still making a considerable tour around museums, art foundations and galleries.
The first one is 'The Innocents', made with portraits of American citizens wrongly accused and imprisoned for violent crimes.
The second and most recent one is 'An American Index of the Hidden and Unfamiliar', images of spaces that are crucial for the identity of the American society, but remain inaccessibile for ordinary citizens (U.S. Customs, CIA, scientific labs, etc).
The two works are quite different from each other, the first one is a series of large format portraits, made in the places that determined the illegitimate conviction suffered by those people, raising again the question of the photopraphs and the other evidences that connected them to those places; the second one depicts mysterious and aseptic spaces with an effect of subtle irony and sarcasm (the hall of CIA art collection, for example) and with an overall visual ‘German style’.
The impression is that Tary Simon elaborates her projects starting from a strong theoretic assumption that is later realised through images, on which she chooses to apply one visual language rather than another one. Her work in the editorial field probably helped her in this ability to master those language shifts.
But it’s also evident that one strong issue for her seems to be exactly the question of seeing: its reliability in the first project and the relevance and the invisibility of certain places in the second one.

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Saturday, December 15, 2007

Rischio paesaggio


Da vedere il lavoro di Marcello Mariana che ha vinto il premio Atlante Italiano 2007 - Rischio Paesaggio.

Worth to be seen is Marcello Mariana’s work, with which he won the “Atlante Italiano 2007 – landscape in danger” award.

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Movie-making


Dal 19 dicembre il Palazzo delle Esposizioni di Roma ospiterà la mostra antologica su Gregory Crewdson che, organizzata dal Kunstverein Hannover, sta girando l'Europa ripercorrendo il suo lavoro degli ultimi vent'anni.
Per chi non lo conoscesse, Crewdson è un fotografo che realizza delle immagini interamente messe in scena, su una scala che ricorda la produzione necessaria a girare la scena di un film: troupe, attori, luci, gru, etc. Le immagini ricordano le atmosfere di un film di David Lynch, ma al tempo stesso hanno una risonanza con l'estetica fotografica di autori come Stephen Shore e Joel Sternfeld.
In pratica, il fine art fotografico al servizio del perturbante.
Peccato che nella mostra Crewdson non abbia incluso il suo ultimo lavoro, Fireflies (realizzato nel 1996 ma pubblicato dieci anni dopo), immmagini in b/n e stampe di piccolo formato che mostrano le lucciole che vagano nei prati fuori dalla sua casa in campagna.
Sarebbe stato un bell'accostamento con i suoi tableaux blockbuster, un po' come se George Lucas o James Cameron girassero un film con mezzo milione di dollari.
Less is more?

Rome’s Palazzo delle Esposizioni is hosting from Dec. 19 the retrospective exhibition on Gregory Crewdson made by the Kunstverein of Hannover, a show actually touring Europe with Crewdson’s last twenty years’ work.
For those who may not know him, Crewdson is a photographer who makes images that are entirely set up, on a scale equal to the work needed to shoot the scene of a movie: troupe, actors, lights, cranes.
His images remind of the atmospheres of a David Lynch movie, but they have at the same time a visual resonance with authors like Stephen Shore and Joel Sternfeld.
To sum up, fine art photography devoted to the Uncanny.
Too bad Crewdson did not include his last work in the show, Fireflies (made in 1996 but printed ten years after), b/w images and small prints of fireflies flying around in the green outside his countryhouse.
It would have been a nice combination with his blockbuster
tableaux, a bit like George Lucas or James Cameron making a movie with half a million dollar.
Less is more?

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Friday, December 14, 2007

Nostalgia canaglia


Esistono argomenti sui quali abbiamo delle opinioni in agguato, pronte a saltar fuori in ogni momento per aggredire un pensiero che sappiamo nell'aria e che quasi desideriamo trovarci di fronte per contrastarlo: uno di questi è per me l'obsolescenza della fotografia analogica.
Il fotografo canadese Michel Campeau ha pubblicato su Aperture un portfolio dal titolo Darkroom, con un sottotitolo la cui traduzione in italiano è Sull'obsolescenza del procedimento con la gelatina ai sali d'argento nell'epoca della riproduzione digitale.
Il portfolio di Campeau mostra immagini di lavandini incrostati, detriti fotografici assortiti e ingranditori che somigliano a buffi totem. Insomma, i resti di una civiltà che avrebbe fatto cose strane con oggetti strani, non rendendosi conto che all'orizzonte ci sarebbe stato il modo di fare cose più belle e in un modo più elegante. Quello che mi ha colpito del lavoro di Campeau è l'assenza di immagini che raccontassero i luoghi in cui questi buffi oggetti venivano usati, poichè il lavoro resta fissato sui dettagli e sugli oggetti isolati dal contesto; mi ha colpito anche l'assenza di immagini di oggetti che, per quanto deperiti, fossero di qualità, come se l'analogico volesse dire quella bizzarria che ti fa usare cose non perchè utili ma perchè strampalate, stregonesche. L'unico ingranditore mostrato, un Leica, somiglia a un uovo di Pasqua e ha sullo sfondo una carta da parati demenziale.
Il lavoro è stato editato sotto la supervisione di Martin Parr (...), che ci regala queste parole sul lavoro:

In pochi anni, questi luoghi saranno inevitabilmente estinti. Chi d'altronde vorrebbe rinchiudersi e giocare con prodotti chimici, quando oggi una stampante a getto d'inchiostro può dare una stampa di qualità uguale a quella di una stampa analogica tradizionale (e di una durata di conservazione superiore) [...]

Ma, al di là del soggetto, perchè queste immagini sono così forti? È la loro semplicità, la forma incisiva e - scattate a una distanza ravvicinata - la loro intimità. I dettagli, esaminati da vicino, dicono più di quello che una veduta più ampia potrebbe fare.

(Nostra traduzione)

(qui altre informazioni)

'Soggetto e al di là di esso', 'semplicità', 'intimità' e, ovviamente, il far vedere meno che farebbe vedere di più. Siamo alle solite...
Campeau stesso poi dice, molto onestamente, che questo lavoro ha a che vedere con 'il crollo e la presa di una distanza da una fase del mio lavoro, sperimentando quel che resta dell'immaginazione e della memoria'(nostra traduzione).
Certo che, con le immagini con cui rappresenta ciò che per lui è la memoria della camera oscura, fa pensare a chi, dopo la fine di una lunga storia d'amore, dicesse 'Incredibile, non riesco a capire come ho fatto a stare tutto quel tempo con quella persona'.

There are subjects on which we have a strong opinion hiding inside ourselves, ready to come out at any moment to attack some idea that we know it’s in the air and we’d almost wish to find this idea in front of us to oppose it: one of these thoughts is for me the obsolence of analog photography.
Canadian photographer Michel Campeau recently published on Aperture a portfolio called Darkroom, with a subtitle reading 'On the obsolence of the silver gelatin process in the age of the digital reproduction'.
Campeau’s portfolio shows images of rusted sinks, various photographic debris and enlargers looking like funny totems. Short, something like the remains of a civilization who did strange things with strange objects, not realising that one way to do better things in a more elegant fashion was coming. What really struck me of Campeau’s work is the absence of images trying to show and represent the places where these funny objects were used, since the work is fixed on details and objects isolated from any context; I was also struck by the absence of objects that, even if deteriorated, could show any quality, as if analog could only just mean the very oddness that makes you use things just because they’re weird and not because they’re useful, as if witchlike. An enlarger shown in a picture is a close shot of a Leica looking like an Easter egg, with a background of cheap wallpaper.
The work was edited under the supervision of Martin Parr (…), who gives us these words about it:

'In a few years’ time, these places will inevitably be extinct. Who in their right mind would want to lock themselves away and play with chemicals, when today an inkjet printer can render a print of quality equal to that of a traditional analogue print (and of superior archival durability)?'

'But apart from their subject, why are these images so strong? It is their simplicity, strong design, and — shot at such close range — their intimacy. The details, closely examined, say more than a wider view can convey'.

(more here)

'The subject and what goes beyond that', 'the simplicity', 'the intimacy' and, of course, showing less that would mean show more. The same old things again...
Campeau himself, very honestly, says that the project deals with ‘the collapse of and the distantiation with a whole phase of my work, I am experimenting with what remains of imagination and memory’.
Well, the images he chose to represent his memory of a darkroom makes me think of who, after the end of a long love story, would say ‘I can’t understand how I could be with that person for such a long time’...

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Thursday, December 13, 2007

Ritratto recitato


Abbiamo scoperto Guadalupe Ruiz qualche mese fa, grazie a Mrs Deane.
Colombiana ma residente a Losanna, ha realizzato diversi progetti legati tra di loro dal tema della rappresentazione culturale dei luoghi e delle persone e dei rischi di perdere la percezione reale (e personale) di essi dietro la nebbia degli stereotipi.
Così lei ha deciso di raccontare la Svizzera come luogo della mente fatto di tracce sparse per la vita colombiana, oppure ritrarre tutta la sua famiglia facendogli impersonare tutti i cliché con cui tanta parte del mondo immagina il suo paese: criminali, lolite, armi e tradizione.
In un periodo in cui la 'neutralità' domina la ritrattistica fotografica, Guadalupe Ruiz chiede al cosiddetto soggetto di fare un'immagine piuttosto che di darsi all'immagine, giocando proprio sul tema dell'abuso di rappresentazione.
Qui un'intervista con lei in spagnolo (per una volta un link non in inglese!).

We discovered Guadalupe Ruiz months ago thanks to Mrs Deane.
Colombian but living in Lausanne, she made different projects all tied together by the themes of the cultural representations of people and places and of the risk of losing a real (and personal) perception of them behind a fog of stereotypes.
She decided to talk about Switzerland as a place of the mind made of traces spread around Colombian life, or portray the members of her family while impersonating all sorts of clichés used by a great part of the world when thinking about Colombia: criminals, lolitas, guns and tradition.
In a moment when 'neutrality' dominates the portrait in photography, Guadalupe Ruiz asks the so-called subject to make an image rather than giving himself or herself to it, thus playing right with the issue of the abuse of the representation.
Here an interview with her in Spanish (a non-English language link, for once!).

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Wednesday, December 12, 2007

Storia infame, Cap. II

Ando Gilardi, Autoritratto alla maniera del 'Photomaton', 2003

Nella passata menzione ad Ando Gilardi, fotografo e storico della fotografia (per citarci), abbiamo mancato di ricordare il suo ultimo libro, uscito nel 2007. Si tratta di una conversazione/intervista tra lui e la sua collaboratrice di lunga data Patrizia Piccini.
Libro che andrebbe letto anche solo per due, o forse tre ragioni: primo, perchè è lui; secondo, per il titolo, Meglio ladro che fotografo, che da solo vale un libro; terzo, per quello che già l'avvertenza d'apertura dice:

'L'opera migliore dell'Illuminismo, forse la sola che valga la pena di ricordare, la scrisse Diderot e porta il titolo 'Giacomo il fatalista e il suo padrone' (1796). È meno nota di tante; da chi dice di averla capita viene definita un'analisi sulla psicologia del libero arbitrio e del determinismo. Che sono parole prive di senso'.
[...]

'Prima della mia partenza, perché devo andare lontano, abbiamo deciso di pubblicare qualcosa dei nostri dialoghi nello stile incantevole di quelli del libero servo e del suo servo padrone. Magari potrete trovarli piacevoli; se non lo fossero vi basta non leggerli. Ma supponiamo li legga un giovane che vuole fare il fotografo: allora diventano indispensabili'.


Grazie, Ando.


In our past mention to Ando Gilardi, photographer and photography historian (to quote ourselves), we did not remember his last book, released in 2007. A book that is worth reading even just for two, or maybe three reasons: first, because it was written by him, second for its title, 'Better to be a thief than a photographer', which alone makes the book worth reading; third, for his opening note, reading:

'The best work produced by the Enlightenment, maybe the only worth being remembered, was written by Diderot and has the title of 'Jacques le fataliste et son maître' (1796). It is less known than many others; who declares having understood it defines it as an analysis over the psychology of the free will and of the determinism, which are meaningless words'.
[...]

'Before my departure, and since I have to go far, we decided to print something of our dialogues in the enchanting style of those between the free servant and his master. You might find them pleasant; should it not be so, then you can simply not read them. But let's assume a young person who wants to be a photographer should read them: they would then become indispensable'.
(Our translation)

Thank you, Ando.

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Tuesday, December 11, 2007

riso amaro


Questo è Martin Kollar dell'agenzia francese VU.
Kollar è la versione senza zucchero di una nota marca da tè inglese.

This is Martin Kollar, from VU, the French Photo Agency. Kollar is the sugar-free version of a famous English brand of tea.

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Monday, December 10, 2007

Over 1000!

Weegee, Crowd at Coney Island, temperature 89 degrees... They came early, and stayed late. July 22, 1940

Abbiamo raggiunto (e superato) quota 1000 visitatori ('unique visitors', come precisamente li chiama il nostro counter Extreme Tracking) dall'infausto giorno in cui abbiamo deciso di ospitare un counter nel nostro blog, perdendo la nostra verginità di semplici amanti della fotografia e finendo nella spirale del monitoraggio conto visite al blog...
Nonostante questo, siamo ancora animati da tanto entusiasmo e voglia di condividere cose belle, perciò restate con noi e grazie a tutti quelli che ci hanno fatto visita in queste settimane!

We reached (and went over) 1000 visitors (or 'unique visitors', as exactly our counter Extreme Tracking says) since the sad day we decided to host a counter in our blog, losing our virginity of simple photography lovers and falling down the spiral of monitoring the number of visits to our blog...
Despite all this, we are still moved by a lot of enthusiasm and willing to share beautiful things, so stick with us and thanks to everybody who visited us in these last weeks!

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Un altro sguardo


La grande capacità narrativa e il linguaggio fotografico complesso fanno di Alfredo D'Amato un'anomalia nel panorama fotogiornalistico italiano. Qui altre immagini sul sito della Panos.

The great narrative ability and the complex photographic language make Alfredo D’Amato appear an anomaly within the Italian photojournalistic landscape.
Here more images from Panos Picture photo agency.

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Sunday, December 9, 2007

Domande a Fulvio Bortolozzo


Fotografo torinese, autore di lavori dedicati al paesaggio urbano della sua città (e non solo), Fulvio Bortolozzo è il primo gradito ospite di Hippolyte Bayard. Debutta anche la traduzione in inglese, alla fine della versione italiana.

A photographer from Turin, author of works focused on the urban landscape of his hometown (and more), Fulvio Bortolozzo is the first welcome guest of Hippolyte Bayard. English translation also makes its debut, please find it at the end of the Italian text.

Quali sono stati i primi stimoli verso la fotografia? Puoi dirci qualcosa della tua formazione fotografica? I tuoi lavori che abbiamo potuto vedere, seguendo il filo che tracci sul tuo sito, partono dalla fine degli anni ’90, eccezion fatta per Affissi, di cui parleremo. Che altro ci puoi dire del tuo lavoro negli anni precedenti?

Per tutti gli anni ’70 fui un appassionato lettore e autore di fumetti. Questo interesse forte mi spinse ad orientarmi verso studi artistici, dove feci fondamentali esperienze formative, oltre ad avere l’opportunità di avvicinarmi alla scena torinese dell’arte povera e concettuale. In quel clima maturai il primo interesse consapevole per la fotografia, acquistando nel 1980 una biottica 6x6 sovietica, la Lubitel 2, che sistemai su un treppiede e con la quale iniziai ad esplorare da autodidatta la tecnica fotografica. Successivamente mi avventurai a sviluppare e stampare le mie fotografie nel solito bagno di casa. Nel frattempo mi “acculturavo” leggendo diverse riviste fotografiche. Ricordo ancora la fortissima emozione che mi diedero alcuni numeri monografici di storia della fotografia curati da Roberto Salbitani per Progresso Fotografico. Negli anni successivi abbandonai definitivamente il bianco e nero a favore del colore nella sua espressione più squillante: la pellicola per diapositive. Con questo materiale iniziai a fotografare durante i miei spostamenti ogni cosa che mi interessasse, finendo per concentrare sempre più l’attenzione su alcuni soggetti ricorrenti. Fu in quel periodo che mi avvicinai all’opera di Franco Fontana, in specie “Paesaggio urbano” e “Presenza-Assenza”. Successivamente scoprii alla Libreria Agorà di Torino un libro che mi travolse definitivamente: “Kodachrome” di Luigi Ghirri. Da allora, seppur lentamente, andai maturando la necessità di concentrare ogni mia energia sulla fotografia di ricerca personale.


Progetti come appunto Affissi, ma anche i successivi Alphaville o My dream girls ad esempio, pur nelle loro differenze comunicano un’appartenenza ad un approccio concettuale nell’uso della fotografia, una rappresentazione dello spazio ma anche del potere evocativo degli oggetti che ricorda una parte del lavoro di Ghirri.

Sì, il primo Luigi Ghirri — quello di “Paesaggi di cartone”, “Topografia-Iconografia”, “Atlante” per intenderci — mi indicò la strada per uscire dalla seduzione della pura forma. Mi fece capire come la forma, pur basilare, debba essere “necessaria”, mezzo e non fine. Il fine rimane sempre l’idea fattasi visione, il flusso di coscienza innescato dalla percezione. Il potere peculiare della fotografia divenne ai miei occhi quello di trasferire, dislocare, percezioni su superfici bidimensionali che potevano diventare, per questo solo fatto, pensieri sulle cose, sulla vita. Una forma entusiasmante di osservazione e conoscenza.

E poi c’è questo passaggio forte, ci sembra, l’apertura al paesaggio urbano diffuso, nel senso di una fotografia di rappresentazione più complessa e articolata e meno sintetica. Cosa è successo in quel passaggio?

Ci sono ancora ben dentro a quel passaggio e quindi il mio “punto di vista” è quello del pesce nella boccia di vetro. Detto questo, penso che anche in questo caso si tratti della convergenza di più cause. La prima, e più forte, è stata la perdita di mio padre nel 2003. Il senso di smarrimento e inutilità derivanti, produssero uno stravolgimento interiore nel quale sono ancora immerso. La conseguenza “fotografica” diretta fu una perdita di fiducia nel “logos”, nel discorso sulle cose. Non avevo più nulla da dire, nulla da affermare su niente. Nacque così l’opera aperta “Scene di passaggio (Soap Opera)”. La domenica mattina del 5 gennaio 2003 uscii presto dalla casa di un’amica che mi ospitava a Bruxelles con l’intenzione di continuare a sperimentare l’uso del grande formato. Camminando, arrivai davanti ad una breve via. Si chiamava “Petite rue du Nord” (Piccola via del Nord). D’istinto, scattai la foto che in seguito riconobbi come la prima della serie. Mentre mio padre moriva, nasceva in me la necessità insopprimibile di abbandonarmi alla pura percezione di luoghi che, per qualche motivo, riverberavano la mia presenza nel mondo.


Un’impressione netta è che questo nuovo approccio sia presente sia nei tuoi progetti personali che negli incarichi professionali, quasi che in alcuni momenti le due linee possano incrociarsi. È così?

Sì, è così. Anzi, direi di più. Sto portando avanti l’idea che non debba più esserci, per quanto mi riguarda, alcuna differenza tra lavoro personale e lavoro commissionato. Intendo affrancarmi del tutto dalla necessità schizofrenica di dividersi tra il “fare per sé” e il “fare per gli altri”. Interpreto gli incarichi che accetto come occasioni di portare la mia vita in luoghi che altrimenti non avrei mai conosciuto e interagisco con essi direttamente. Questo aspetto del mio lavoro ha a che fare con la fiducia nel fatto che il caso non esiste. Quindi affidandomi al “caso” delle commissioni in realtà sto continuando a camminare per la mia strada. Strada della quale non conosco il passo successivo, ma posso solo voltarmi indietro a guardare i passi fatti nel tentativo, spesso sterile, di vaticinare i passi successivi.

Il paesaggio urbano è un tema molto forte della fotografia contemporanea, dai lavori di alcuni grandi nomi della scuola di Düsseldorf ad autori italiani quali Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Francesco Jodice. Come si convive con vicini ‘ingombranti’ come questi, sia all’estero che in Italia, mantenendo una linea di ricerca propria ed in grado di rinnovarsi?


Negli States è normale sentirsi parte di una “tradizione” e dialogare con autori passati e contemporanei attraverso le proprie opere. Anche per me è così. Il mio lavoro interloquisce con quello di altri autori e così contribuisce, spero, a “portare avanti il discorso” in una dialettica che ritengo sempre indispensabile. In questo senso, gli autori citati, lungi dall’essere vicini “ingombranti”, sono parte essenziale della tradizione fotografica internazionale nella quale mi riconosco. Il rinnovamento della ricerca, a mio parere, non può essere però un mio problema. Il mio compito di autore è di riuscire a diventare così preciso da migliorare al massimo possibile la quasi impronunciabile “bortolozzità” di cui sono portatore unico e irripetibile. Punto. Cosa questo significherà per la tradizione, saranno il tempo e la valutazione di contemporanei e posteri a stabilirlo.


A proposito di Basilico, mi è capitato di leggere una tua riflessione interessante sui rischi di anteporre una propria ‘griglia’(o più griglie) visiva ad ogni luogo che ci si trova a fotografare, contrapposto al cercare di farsi attraversare dai luoghi, fondendo la propria visione con la natura e la diversità dei luoghi. Tu hai realizzato Shift:Bari nel 2006. Hai avuto modo di vedere il lavoro di Basilico Bari0607?

Del lavoro di Gabriele Basilico su Bari ho visto solo una trentina di riproduzioni su Internet, quindi troppo poco per formarmene un’opinione. L’unica cosa cui posso accennare è alla diversità dei nostri atteggiamenti nei confronti degli stessi luoghi. Fatto questo sul quale ebbi già modo di riflettere mentre realizzavo la serie OLIMPIA in zone dove anche lui lavorava nell’ambito dell’incarico pubblico che portò in seguito alla mostra “Sei per Torino”.
Dando per assodato che Basilico è un riferimento imprescindibile per chiunque si trovi ad occuparsi di paesaggio urbano oggi in Italia e che quindi anch’io ho ricavato molte utili indicazioni dallo studio della sua opera, ritengo che i nostri percorsi divergano proprio sul terreno del rapporto con lo spazio urbano.
A mio parere, Basilico guarda la città attraverso il filtro di una solida cultura architettonica, di ascendenza illuministica e modernista, nel costante intento di trovarvi un ordine pacificante, anche solo in via ipotetica.
Per quanto riguarda invece me, lo spazio, non solo quello urbano, è prima di tutto un contenitore di potenziali percezioni ovvero una scena. Il mio intento è di esperire direttamente le possibilità percettive del luogo e di riuscire a trasferirle nello spazio e nel tempo per tramite di un oggetto, la fotografia, che, pur disperdendone una gran parte, è in grado di conservarne traccia verosimile.
La mia osservazione sulla “griglia visiva”, cui fate riferimento, è da leggersi in relazione con un altro aspetto dell’opera di Basilico: la ripetizione di una serie di soluzioni compositive, senza variazioni sostanziali, in contesti molto differenti. Una specie di reticolo universale indipendente che, a mio avviso, contiene un notevole rischio di autoreferenzialità.

I tuoi progetti Olimpia e Spina Centrale potrebbero essere due capitoli di un unico grande lavoro sulla costruzione del paesaggio metropolitano nell’area torinese.
Scene di passaggio è la tua opera aperta, ma anche il filo che sta dietro a tutto il tuo lavoro, ci sembra di capire. Le immagini, dici, ‘ "accadono" quando, nel corso dei miei spostamenti, prende il sopravvento la percezione di trovarsi di fronte ad una scena che ha una relazione con la mia esistenza.’.
Una riflessione/domanda: possiamo dire che quello che tu chiami relazione con la tua esistenza sia anche una dimensione di approccio più ‘percettivo’ rispetto a quello che hai di fronte, un cercare non con il pensiero verbale ma tramite sensazioni che nascono dal guardare, laddove, forse, la prima fase del tuo lavoro era più ‘a tesi’, meno visivo/percettiva?


Direi piuttosto che ora sento più fortemente la necessità di usare lo strumento fotografico per dare spazio alla contemplazione delle cose e con essa rendermi più disponibile ad ascoltare cos’hanno da dirmi. Un tempo ritenevo invece prioritario il fatto di essere io ad avere “delle cose da dire”.


Perché hai scelto il grande formato e la sua ‘lentezza’ lavorativa? È in qualche modo collegato al discorso della risonanza interna che cerchi con i luoghi che esplori?
Puoi dirci qualcosa sul tuo metodo di lavoro e sui suoi principali aspetti tecnici?
Come sono le tue notti fotografiche? Chi incontri? Come esplori lo spazio e come ti muovi? Fai sopralluoghi oppure vai in cerca immagine dopo immagine?


Ho rinviato a lungo la scelta di passare dal piccolo formato alla pellicola piana 10x12 cm, almeno una decina d’anni, perché il mio approccio al fotografare è sempre stato itinerante: grandi camminate o, per percorsi più lunghi, giri automobilistici alternati a camminate. Il timore era quindi quello di perdere questa indispensabile dimensione operativa. Dopo le prime esperienze, ho invece messo a punto un approccio al grande formato che mi consente, con uno zainetto di peso ridotto sulle spalle, mai più di 6-7 Kg, e un leggero treppiede in mano, di continuare a percorrere chilometri su chilometri alla costante ricerca del punto di vista che da qualche parte mi sta aspettando. Non faccio alcun sopralluogo perché invariabilmente le cose mi appaiono sempre diverse e quindi mi “faccio delle idee” che poi non sono più applicabili al mio ritorno sul posto. Sia di notte che di giorno incontro tanto affetto per la fotografia d’antan. La mia fotocamera è una Tachihara in legno di ciliegio rosso con finiture ottonate che amo molto perché quando è piegata ricorda una vecchia scatola per i colori ad olio. Quel tipo di fotocamera è una vera attrazione per grandi e piccini e quindi mi ritrovo a volte, con piacere, a “socializzare” durante le riprese. Nel complesso comunque l’atteggiamento contemplativo acquisito con l’uso di una folding 10x12 cm è ormai divenuto così parte del mio fotografare che raggiungo risultati simili, fatta esclusione per i movimenti di macchina, anche con fotocamere digitali. Attualmente ritengo che il sistema “ibrido” della ripresa su pellicola piana negativa a colori e la successiva scansione, postproduzione e stampa digitale su carta fotografica tradizionale siano il flusso di lavoro che mi consente di ottenere il miglior risultato possibile. Non trascuro tuttavia di sperimentare nuove soluzioni e sto indagando altre modalità operative totalmente digitali.


ENGLISH TRANSLATION


Which were your first steps towards photography? Can you tell us something about how you became a photographer?
The works you made that we were able to see, following your history as it is traced on your website, date from the end of the ‘90s, with the sole exception of Affissi, which we’ll discuss later on.
What else can you tell us about your work in those previous years?


I was an avid reader and author of comics all along the 70’s. This interest led me towards artistic studies, during which I had some fundamental formative experiences, besides the fact that I had the chance to be close to scene of the arte povera and conceptual art in Turin. It was in that context that I was able to develop my very first conscious interest for photography, I purchased a Russian bioptical 6x6 camera, a Lubitel 2, which I set on a tripod and started using to explore the photographic technique as a self-taught. Later on I ventured in developing and print my own pictures in the classic house bathroom. In the meantime I was ‘cultivating’ myself reading several photographic magazines. I still remember the strong emotion I felt in reading two monographic issues of Progresso fotografico by Roberto Salbitani, dedicated to the history of photography. Then, in the following years I left black and white for good in favour of colour in its most brilliant expression: colour slides. So, I started taking pictures with this kind of film of everything that could interest me, focusing more and more on some recurrent subjects. It was in that time that I got acquainted with the work of Franco Fontana, especially Paesaggio urbano and Presenza-assenza. Then I discovered in the Agorà Bookshop, in Turin, a book that really overwhelmed me: Kodachrome by Luigi Ghirri. Since then, even if slowly, I grew a need to focus all my energies on a personal research in photography.

Works like Affissi, which I mentioned, the following Alphaville or My dream girls, even in their differences, give a sense of a common belonging to a conceptual attitude in the use of photography, a way of depicting the space and also some sort of evocative quality of the objects that echo elements of Ghirri’s work.


Yes, indeed the first period of Ghirri – Paesaggi di cartone, Topografia-Iconografia, Atlante, for example— showed me the path to abandon the seduction for the pure form. He made me realise that form, even if fundamental, must also be ‘necessary’, a mean and not an end. The real end is always the idea becoming a vision, the stream of consciousness ignited by perception. The peculiar power of photography became then to my eyes that of transferring, dislocating perceptions over bidimensional surfaces which could become, by that single fact, thoughts over things, over life.
A fantastic form of observation and knowledge.

And then there was this strong movement of yours, we think, the aperture towards a ‘diffused’ urban landscape, a photography devoted to a much more complex and articulated representation, much less synthetic. What happened at that moment?

I’m still inside that movement, so my point of view is that of the fish in the glass bowl. Having said that, I think it was a matter of more elements coming together: the first, and most important, was the loss of my father, in 2003. The feeling of bewilderment and inutility that came from it produced an interior twist inside me, and I’m still deep into it. The photographic consequence of all this was losing the faith in the ‘logos’, the rational thought over things. I felt like I had nothing left to say, nothing to state over anything. This is how the work in progress Scene di passaggio (Soap Opera) was born. On Sunday morning, January 5, 2003, I came out very early from the house of a friend of mine where I was staying in Bruxelles, with the intention to keep experimenting with large format. I reached a short alley, its name was Rue Petite du Nord. By instinct, I took the picture I recognised later on as the first one in the series. As my father was dying, I felt that inside me the need to let myself loose to the pure perception of places was rising, places that, for some reasons, were able to reverberate my very own presence in the world.

One strong impression is that this new approach is clear both in your personal projects and in your professional assignments, to the point that these two lines can almost cross.


Yes, it’s true. I’d also say more. I’m developing the idea that there should not be, for my concern, any difference between personal and commissioned work. I intend to set myself free from the schizophrenic need to split between doing for your own and for the others. I view the commissions I take as occasions to move my life in places I would not have experienced otherwise and I interact with those places in a direct way. This part of my work is due to the fact that I don’t quite believe in chance. This way, entrusting my own path to the ‘chance’ of assignments is in fact to keep following my own road, a road of which I might not know the next step, I can just look back and see the steps I made in the often vain attempt to guess the next one.

Urban landscape is a strong issue in contemporary photography, from the works of some from the Düsseldorf school to Italian authors like Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Francesco Jodice. How does one live with these ‘encumbering neighbours’, both in Italy and abroad and at the same time hold a personal line of work, able to renew itself?

It is normal in the U.S. for photographers to feel like part of a ‘tradition’ and have some sort of dialogue with past and contemporary authors through their own work. For me it is exactly the same. My work speaks with that of other authors and in this way, at least I hope, gives its contribution to carry on the main discourse, in a dialectic that I feel as always necessary. In this regard, the authors you mentioned, far from being ‘encumbering’, are an essential element of the international photographic tradition to which I feel I belong. Renewing the general research is, I think, something that does not concern me. My duty as an author is to try to be so exact to improve the most possible the almost impossible to pronounce ‘bortolozzity’ of which I am the one and only bearer. Period. What this means for tradition, contemporary reception and posterity, time will tell.

Regarding Basilico, you made an interesting remark on the risks of placing our own grid (or more grids) over every place we intend to photograph, opposed to try to be ‘crossed’ by places, merging our own vision with the diversity of every place. You made Shift:Bari in 2006. Did you have the chance to see Basilico’s work Bari0607?

I only saw like thirty images on the Internet, not enough to have a clear idea. I’d only say one thing about the differences in our respective approach towards the same places. I was already thinking about this while I was working on Olimpia in areas where he was working himself for the public commission that led to the exhibition Six for Turin.
Given for granted that Basilico is an indispensable reference for anyone who deals with urban landscape in Italy and that I got many useful suggestions by studying his work, I still believe our paths diverge right on the issue of the relationship with the urban space.
I think Basilico sees a town through the filter of a strong architectural knowledge, derived from Enlightenment and from modernism, constantly trying to find a reconciling order, even if only hipotetically.
For what concerns me, space is not only urban, it is first of all something holding potential perceptions: it is a scene. My aim is to personally experience the perceptive possibilities of a place and to try to bring them to space and time through an object, which is photography, which even if it might scatter most part, is able to keep a veritable trace.
My remark on the ‘visual grid’ that you mention is to be read in connection with another aspect of Basilico’s work: the repetition of a series of choices of composition, without substantial variations, applied to different contexts. A sort of universal and independent grid that, I think, holds a real risk of self-referentiality.

Your projects Olimpia and Spina Centrale could be seen as two chapters of a work on the construction of the urban landscape in the area of Turin.
Scene di passaggio is your work in progress, but we seem to understand it is also the line that stands behind all your work. You say that images ‘happen when, during my wanderings, the feeling to be in front of a scene linked to my own existence arises’.
Can we say that what you call link with your own existence can also be seen as a more perceptive approach, a search done not through rational thought but through feelings coming from the act of seeing, while maybe in the first part of your work you were starting from a ‘thesis’, with less space for vision and perception?


I’d rather say that now I feel much more the urge to use photography to contemplate things and be willing to listen to what they can tell me. Once, I thought that it was me who was supposed to have ‘things to say’.

Why did you choose the large format and its slow working way? Is it linked in some way with the resonance with places you look for while exploring them?
Can you tell us something about your workflow and its main technical issues?
And, last, we’d like to know about your ‘photographic nights, the people you meet and how you explore space, if you do surveys or just ‘wander’ picture after picture.


I’ve been putting off for a long time the choice to move to large format 4x5, for ten years at least. This was due to the ‘wandering’ nature of my photographic approach; long walks, driving by car with walks in between. My fear was then to lose this indispensable operative situation. But soon after I started I found a way that allows me to keep going for many kilometres looking for the point of view waiting for me somewhere, with the help of a 6-7 kg backpack and a light tripod. I don’t do any surveys because every time things always look different to me, this means I make up my mind with ideas that I don’t feel I can apply once I go back to the spot.
I always find, both at night and during the day, a lot of fondness for old-style photography. My view camera is a Tachihara, made with cherry-tree wood with brass trimmings, I love it very much, also because when it’s closed it reminds of an old case for oil painting . It is a real attraction both for kids and grown-ups and so sometimes I find myself ‘socialising’ while I’m shooting. In general, the contemplative approach grown with the use of a folding 4x5 is so part of my photography that I tend to similar results with digital cameras too, with the exception of the camera movements.
I think that actually the hybrid system of shooting with film and then scanning, post-production and digital print on classic photographic paper represents the workflow that allows me to achieve the best possible result. I don’t exclude however to experiment new solutions and I’m actually investigating some fully digital options.

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Saturday, December 8, 2007

Cliniche sale da ballo


Nelle serie Dancers, Morten Nilsson, fotografa giovani ballerini in tenuta ufficiale durante le gare di ballo. Gli abiti formali, il trucco e le pose rigide contrapposti agli spigoli e alle imperfezioni di volti ancora acerbi danno vita alla rappresentazione della linea d’ombra

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Friday, December 7, 2007

Sulla durata

Presentiamo anche a casa nostra il nostro contributo apparso su Nazione Indiana, dove torniamo con più calma su alcune nostre vecchie conoscenze fotografiche:

Louis Pierson, Ritratto della Contessa Castiglione e suo figlio, 1864

C’è il tempo interno dell’immagine e il tempo necessario per farla, l’immagine, sono due cose diverse. Ma, c’è il tempo necessario a pensare e arrivare all’immagine e poi c’è quello che fisicamente serve perché l’immagine esista, venga registrata sulla pellicola.
I primi anni della fotografia erano anni di tempi lunghi e laboriosi, alambicchi e boccette contenevano liquidi che minacciavano sempre di mischiarsi e rubarsi il loro potere a vicenda, pesanti lastre di argento o vetro venivano inserite in altrettanto pesanti apparecchi fotografici di legno massiccio, fino al momento cruciale in cui tutto era in equilibrio e si poteva, diremmo noi, scattare la foto. Già, ma di scattare proprio non si trattava, anzi da lì cominciava un altro tempo lungo, cruciale, in cui tutto doveva tenersi insieme, fermo, immobile. Il tempo dell’esposizione.
I sali d’argento dei primi anni della fotografia pretendevano minuti e minuti di esposizione per annerirsi a sufficienza, ma la società già chiedeva ritratti su ritratti, gruppi di famiglia, effigi gloriose. E allora era tutto un fiorire di piedistalli, di poggiatesta nascosti, di mani nel panciotto e di sguardi imbronciati per restare fermi, per conservare l’immagine cristallina e senza sbavature che si confaceva ai posteri.
La fotografia ha lottato per decenni contro il tempo, ingannandolo, camuffandolo, ostinandosi a contrastare la lentezza di un’immagine che invece da subito si voleva veloce, istantanea.
Negli anni poi il tempo fu davvero dominato, l’istante fu congelato e casomai divenne complesso allungarlo di nuovo, nei decenni che trascorsero tra chi scoprì come un cavallo muoveva esattamente le zampe mentre correva e chi teorizzò la poetica dell’istante decisivo. E allora fiumi di immagini amatoriali furono consacrate a cogliere, a fermare, la persona amica era sempre più bella quando non sapeva di essere fotografata, quando guardava da un’altra parte, quando la mano era congelata mentre passava nei capelli.
Teleobiettivi permettevano di scrutare da lontano e prendere le immagini di migliaia di soggetti inconsapevoli, mentre i corti grandangoli facevano sempre tutto troppo largo e troppo piccolo.
Chiunque conosca qualcosa di tecnica fotografica sa che l’industria regala facilmente all’amatore strumenti per catturare e fissare, ma molto meno lo mette in condizione di rallentare e lasciar scorrere il mondo dentro l’immagine. Fare una foto anche solo di un minuto durante il giorno è cosa che chiede studio e dotazione di obbiettivi professionali, filtri, pellicole di sensibilità molto basse, un armamentario inaccessibile a chi non se ne intenda. È una visione che va contro l’evoluzione tecnica, è una fotografia contropelo.
Molti fotografi si sono però avventurati nella rappresentazione della durata, esplorandone diversi aspetti, usandola per giungere a visioni molto diverse tra loro. Ecco qualche esempio.

Il tempo della luce: Hiroshi Sugimoto e Abelardo Morell


“Immagina se fotografassi un intero film su un singolo fotogramma.” La risposta: “Avresti uno schermo di luce.” … Un pomeriggio andai in un cinema dell’East Village con un apparecchio di grande formato. Appena il film cominciò aprii l’otturatore. Due ore dopo, quando il film era finito, lo chiusi. Quella sera sviluppai la pellicola, e la mia visione esplose di fronte ai miei occhi’.

Hiroshi Sugimoto, South Bay Drive In, San Diego, 1993

Così il fotografo giapponese Hiroshi Sugimoto descrive come nacque la sua serie Theaters, immagini di sale cinematografici e drive-in immersi nel buio, dove al centro svetta un rettangolo di luce bianca che irradia gradualmente le file di poltrone e le pareti dei cinema. Mai abbiamo nero puro in queste immagini, anche nel punto più scuro scorgiamo un dettaglio o percepiamo lo spazio, come quando entrando in una stanza buia ne percepiamo la profondità. Sugimoto in queste sale arriva a rappresentare la luce della penombra, un buio che brilla di luce propria e che al tempo stesso è la rappresentazione del tempo della luce, come se in fotografia una certa luce ci portasse subito a sentire il tempo che è stato necessario per rappresentarla.

“Una camera oscura è uno spazio di qualsiasi dimensione oscurato completamente salvo che per una piccola apertura. La minuscola quantità di luce che entra nello spazio oscurato produce sulle pareti un immagine capovolta del mondo esterno. Più è piccola l’apertura, più scura ma nitida l’immagine apparirà”.

Abelardo Morell, Times Square in hotel room, 1997

Abelardo Morell
non usa parole difficili per illustrare la tecnica di base con cui ha iniziato la sua opera aperta Camera obscura, stanze che vengono ricoperte dalla luce delicata che viene da fuori e che va a distendere la veduta esterna su tutte le superfici, il pavimento, la coperta sul letto, i giocattoli di un bambino. Otto ore circa sono necessarie perché il debole fascio di luce venga registrato a sufficienza sulla pellicola, tempo lunghissimo la cui sensazione rimane nell’osservare quella luce fragile ma così presente che invade silenziosamente tutti gli angoli delle stanze.

Il tempo dei luoghi: Alexey Titarenko e Matthew Pillsbury


Esistono poi lavori che esplorano i luoghi e gli esseri umani che li abitano, rappresentando l’accumulazione del tempo e delle azioni in una singola immagine. Matthew Pillsbury è autore di luoghi scuri abitati da fantasmi, che sia una visita al museo o una presenza su un divano in una camera illuminata dallo sola luce del televisore.

Matthew Pillsbury, Contemplating wapiti, 2004

Al contrario che in Morell, nelle immagini di Pillsbury sembra di guardare ciò che resta, una luce che mostra una progressiva scomparsa, la figura umana che si sfuma fino a scomparire, la luce che si rititira dalle cose fino a nasconderle.

Alexey Titarenko, Untitled (Crowd 2), 1993

Alexey Titarenko invece ci mostra le strade di san Pietroburgo attraversate da onde e da flussi, dentro i quali possiamo scorgere delle figure vagamente umane. L’aria, le strade e le persone sembrano fluire tutte insieme nelle sue immagini, lasciando strati e scie che colorano il bianco e nero virato delle sue fotografie. Pillsbury lavora su luoghi immobili, dove le figure quasi si cancellano per erosione, Titarenko mostra gli strati e le tracce di luoghi e persone in costante movimento.

Oltre la durata: Michael Wesely


“Ho scoperto che posso fare esposizioni lunghe dieci anni. Ma diventa complicato – diventa più questione di chi svilupperà una diapositiva tra cinquant’anni, cosa succede alla pellicola lasciata per cinquant’anni dentro la macchina fotografica. E poi, ovviamente, ci sarà presto la questione della mia stessa mortalità…”

Michael Wesely, Potsdamer Platz, Berlin, 27/3/1997-13/12/1998

Infine Michael Wesely e le sue foto lunghe anni, forse in futuro decenni…
Ma quando delle immagini sono così lunghe, forse è il caso di dire che sono fotografie di un anno e non lunghe un anno. Qui è il tempo stesso ad essere fotografato, e i luoghi lì semplicemente a testimoniarlo. Pur nella loro pulizia compositiva, le forme si confondono, gli edifici svaniscono o sorgono creando trame fittissime, perfino l’alto e il basso sembrano relativizzarsi. Luci del giorno e della notte si fondono in tonalità quasi astratte, senza ombre, il cielo mostra decine e decine di cicli di sole che si sovrappongono. Se per Wesely il suo lavoro è anche una risposta all’infinità di immagini che vengono prodotte e consumate, non resta che scrutare dentro queste fotografie di anni e cercare immagini su immagini, strati e presenze, mentre osserviamo qualcosa che somiglia davvero al limite fisico e visivo della fotografia.

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