Friday, January 30, 2009

Stratificazioni

Sebastian Lemm, Strata #1, 2008

Sovrapposizioni di alberi, fondali che si dissolvono lentamente, paesaggi di microchip e ombre che scorrono tra l'erba popolano le tele fotografiche di Sebastian Lemm, in una particolare combinazione di estetica contemporanea e suggestioni liriche.

Harry Callahan, Chicago, 1956

In qualche modo il suo lavoro mi ricorda alcune immagini dei primi lavori di Harry Callahan nella metà degli anni '50 (anche qui), uno degli autori che meglio ha saputo portare la fotografia dalle sperimentazioni avanguardiste verso l'espressione di un'autentica forma d'arte.

Sebastian Lemm, Traveller II #1, 2004

Superpositions of different shapes of trees, backgrounds slowly fading away from the image, landscapes of microchips, shadows flowing among the grass populate the photographic canvas of Sebastian Lemm, where a peculiar combination of contemporary aesthetics and lyrical suggestions take place.
In a way his work strongly reminds me of some early images made by Harry Callahan (also here) in the mid '50s, one of those authors who really built a bridge from avant-garde experimentation to a more solid autonomy of photography as an art form in itself.


Harry Callahan, Chicago, 1953

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Tuesday, January 27, 2009

Digital justice

Isabelle Hayeur, Torrent, 2003

Dionisio Gonzàlez, Nova Acqua Gasosa II, 2008

Il dibattito 'digitale vs analogico' si riduce spesso a una semplice questione di qualità e di gusto dell'immagine, oppure altre volte approda facilmente a temi squisitamente metalinguistici sulla natura reale delle immagini. Personalmente mi interessa molto di più ragionare su quello che può cambiare rispetto a ciò che si può mostrare e rappresentare: conosciamo tutti le scene digitalmente ricostruite di Andreas Gursky, fatte di assemblaggi di diverse fotografie oppure di scene in cui alcuni elementi sono stati cancellati per ottenere una determinata immagine. Per quanto questo possa sembrare ovvio, penso che la vera questione del digitale e dell'analogico stia nell'andare a indagare che tipo di strumento il primo possa essere rispetto ad un possibile ampliamento della nostra capacità di visione: che cosa il digitale può portare non solo sulla superficie dell'immagine, ma anche (e soprattutto) al di sotto di questa, 'dentro' le fotografie.
D'altronde sappiamo bene che i migliori effetti speciali sono quelli che sembrano veri (e cioè 'realistici'), quindi credo sia piuttosto semplice e immediato applicare la stessa cosa alla fotografia.
Due esempi di espansione delle possibilità della visione umana ottenuta attraverso il digitale, entrambi con l'obiettivo di stimolare una riflessione sugli spazi contemporanei:

- Le favelas immaginarie di Dionisio Gonzàlez (anche qui), che fondono le baracche di San Paolo e Rio de Janeiro con elementi di architettura contemporanea, immaginando un'impossibile riqualificazione utopica di quei luoghi.

- Le vedute sovrumane di paesaggi e architetture realizzate da Isabelle Hayeur, dove vengono indagate le forme di mutazione del territorio e del paesaggio urbano, declinate nelle varie forme di conflitto e contrapposizione che ne derivano, tra città e natura, crescita economica e disagio sociale, vecchia e nuova architettura urbana.

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Isabelle Hayeur, Dunes, 2003

The 'digital vs analog' debate is often either reduced to mere quality issues like resolution or visual flavour or it can easily lead to metalinguistic concerns about the true nature of images. I am much more interested in what changes in terms of what you can actually show or represent: we all know Andreas Gursky's views of digitally constructed scenes made by assembling different photographs, or the images where he erases elements of the original scene in order to show what he's really interested in.
As obvious as it may sound, I think this is the main point of the digital/analog issue: what kind of tool digital is in terms of creating new visions, what digital can achieve not just on the surface of images, but 'inside' them.
And by the way, we all know that the best special effects are those who look real (which means 'realistic'), so I guess it would be pretty straightforward to apply the same rule to photography.

Two examples of works aimed at broadening (literally) our vision of things, both with the goal of promoting some critical thoughts about contemporary human spaces:

- The imaginary favelas by Dionisio Gonzàlez (also here), che fondono le baracche di San Paolo e Rio de Janeiro con elementi di architettura contemporanea, immaginando un'impossibile riqualificazione utopica di quei luoghi.

- Isabelle Hayeur's superhuman visions of natural lanscape and architecture, where the issues at stake are the mutations of the different human spaces, seen through the several forms of conflict underlying these mutations: conflict between natural and urban landscape, economic growth and social disease, old and new urban architecture.

To be continued...


Dionisio Gonzàlez, Nova Heliopolis II, 2008

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Wednesday, January 21, 2009

In Prague

Prague, August 21, 1968. Soviet tanks entering the city, seen through the window of a hotel room.

Nell’estate del 1968 mio padre andò con un amico a Praga. Arrivarono un pomeriggio e passarono la serata andando in giro per la città, dove i bar e le strade erano pieni di persone che bevevano, mangiavano e si divertivano. La mattina dopo, dalla camera d’albergo sentirono uno strano rumore, e scoprirono che proveniva dai carri armati che stavano discendendo la collina di fronte all’albergo: l’Unione Sovietica stava invadendo la città. Lo staff dell’albergo mise un cartello sulla porta d’ingresso, tutti i cittadini stranieri che volessero uscire in strada lo avrebbero fatto a loro rischio e pericolo. C’era un silenzio irreale per le strade, le persone cominciavano a radunarsi attorno ai carri armati. Mio padre scattò un primo rullino di fotografie, un soldato sovietico corse verso di lui e gli ordinò di aprire la macchina fotografica e di tirare fuori la pellicola. Poi scattò un altro paio di rullini, durante quell’unica giornata che passò in una città sotto occupazione, prima di unirsi alla colonna di macchine di cittadini stranieri che lasciava la città sotto la scorta di alcuni rappresentanti delle ambasciate americana e inglese.
Mi ha sempre detto che le foto migliori erano nel rullino che il soldato gli ordinò di bruciare alla luce del sole: c’erano persone che piangevano, e un vecchio che sputava su un carro armato che gli stava passando accanto.
A me piace la strana atmosfera di queste immagini che è riuscito a riportare con sé: c’è davvero un grande silenzio e un senso di smarrimento, i tanti momenti ordinari di cui è fatta una situazione straordinaria, e quindi ho pensato di ospitarne una selezione. Buona visione.

People watching a news bulletin about the invasion of Czechoslovakia inside the hotel lobby.

My father went to Prague with a friend in the summer of 1968. They arrived on an afternoon, spent the night around, bars and streets were full of people eating, drinking and having fun. The next morning they heard a strange noise from their hotel room, only to find out it came from the military tanks that were descending the hill in front of the hotel: the Soviet Union was invading the town. The hotel staff put a warning sign on the door of the lobby, all foreigners who wanted to leave the hotel were doing it at their own risk. There was a weird silence filling the streets, people started to gather around the lines of tanks. My father shot a first roll of film and a Soviet soldier ran towards him, and ordered him to open the camera and throw the film out. He shot a couple more, during that single day he spent in an occupied city, before joining the lines of cars of foreigners led by representatives of the English and American embassies that left Prague the morning after.
He always told me that the best pictures were on the roll the soldier ordered him to espose to sunlight: there were people crying, and an old man spitting on a tank moving next to him. But I like the strange feeling of these images he brought back with him: there’s indeed silence and disorientation, I think they truly show ordinary moments of an extraordinary situation, and so I decided to share some with you. Hope you’ll enjoy them.




"All foreign citizens are required to stay inside. Those leaving the hotel will do it at their own risk".



















"CCCP go home".



All images © Bruno Severo

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Monday, January 19, 2009

Esploratori

© Tammy Mercure

Il lavoro di Tammy Mercure è un altro contributo al grande tema dell'interazione umana con i luoghi (nello specifico del visitare e del viaggiare), con quell'ironia che ci mostra gli esseri umani come creature vagamente perse, che cercano un modo di stare al mondo, che si tengono occupati, cercano di divertirsi e di tenere un po' tutto insieme. Si tratta di un approccio che ormai ci è familiare, dato che la fotografia contemporanea ce ne offre vari esempi, tanti modi di esprimere fotograficamente la ricorrente domanda "Chi sono queste creature e cosa stanno facendo?"

Ecco altri due esempi:

© Natascha Libbert

- Le serie Men and Orchids e Men at Airshow di Natascha Libbert mostrano gruppi di persone così assorbite dal luogo in cui si trovano che potrebbero perdercisi dentro; la prima è popolata da persone che scattano freneticamente fotografie di orchidee, la seconda di uomini che vagano in un salone aeronautico tra velivoli e hostess seducenti, ipnotizzati come dei bambini in un negozio di giocattoli.

© Peter Otto

- I Tourist Places di Peter Otto, un'affascinante interpretazione del sublime gesto della "fotografia turistica", rappresentata in modo così plastico da sembrare una cerimonia.

Un'ultima cosa sul lavoro della Mercure: la sua serie Wonders è fatta di immagini del Wisconsin Dell, un'attrazione turistica del Midwest americano piena di repliche di diverse meraviglie del mondo. Le fotografie sono realizzate con il foro stenopeico, riportando quei luoghi a un tempo in cui neanche esistevano, cancellando la differenza tra il luogo reale e la sua grossolana riproduzione.
Mi piace pensare queste immagini come frammenti di ciò che tutte quelle persone, tutti quei turisti cercano di afferrare, una sorta di visione interiore fatta di aspettative, ricordi coscienti e desideri personali, mentre una strana nebbia avvolge il 'vero' luogo, non lasciando possibilità a una visione reale di quello che gli occhi hanno davanti.

© Tammy Mercure

Tammy Mercure's work is another contribution to the great theme of the human interaction with places (especially visiting and travelling to places), with that ironic feeling that show us human beings as slightly lost creatures trying to find their way through things, keeping themselves busy, pretending to be having fun or anything else to hold everything together. It is a feeling we have become familiar with, since contemporary photography has offered us a wide variety of examples of this approach, where the photographic eye keeps asking the same question: "Who are these creatures and what are they doing?"

Here's two more examples:

Natascha Libbert's Men and Orchids and Men at Airshow, two series depicting groups of people so absorbed in the environment they almost seem to lose themselves in it; the first one shows men frantically taking pictures of the orchids, while in the latter the male adults wandering around planes and sexy flight attendants are hypnotized more than kids in a toy shop.

Peter Otto's Tourist Places, an interesting rendition of the sublime act of taking a "touristic photograph", depicted in such a plastic way that it becomes some sort of ceremony.

One last thing about Mercure's work: her series Wonders is made of images of Wisconsin Dell, a tourist mecca in the American Midwest full of replicas of many wonders of the world. The images are made with pinhole, thus taking those places back to a time when they did not even exist, erasing the difference between the real place and the cheesy reproduction of it.
I like to consider those images as glimpses of what all those people, all those tourists are trying to grasp, some kind of inner vision made of expectations, memories and desires, while a strange midst surrounds the 'real' place, leaving almost no chance to a real 'vision' of what the eyes have in front of them.

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Tuesday, January 13, 2009

Domande a Abelardo Morell

Abelardo Morell, Flashlight and Salt: Photogram on 8” x 10” Film, 2006

We all know him for his landscapes captured inside the darkness of empty rooms, his Camerae Obscurae prolonging the magic of the birth of photography, but Abelardo Morell has many more things to show and tell us, as he kindly did in the following interview. Enjoy the read!

Lo conosciamo soprattutto per i suoi paesaggi catturati nell'oscurità di stanze vuote, le sue Camerae Obscurae che ricreano la magia della nascita dell'immagine fotografica, ma Abelardo Morell ha molte altre cose da mostrarci e da raccontarci, come ha fatto nell'intervista che segue. Buona lettura!

HB: Your early pictures were somehow inspired by the street photography of the 50's and the 60's in the US, and then you sort of moved inside your house's walls and started creating your own visual world. What made you change direction and turn your vision towards your own personal life?

Abelardo Morell: When my son Brady was born in 1986, the combination of new feelings for family life and being tired of the more alienating looking ironic work that I was doing in the streets led me to consider life from a more stationary and loving point of view. I discovered the pleasures of view camera work, which was so fitting with the subject of my family and domestic objects in front of me. I believe that this shift of focus in the mid 80’s still influences the pictures that I’m making now.

Topsham, Maine, 1982

HB: Some of your series seem to have something in common with certain aspects of the Surrealism movement, both your recent Photograms and the way you’ve been photographing objects in other series, somehow reminding the Objets Trouvés as described by André Breton. But at the same time your images deal with those objects in a totally different way, not leaving anything to chance. What’s your opinion about it?

AM: Surrealism was very important in my early artistic development because it helped me shake certain rigid boundaries. Magritte is one of my favorites – he paints objects in a very matter of fact way, almost photographically. I prefer that sort of surrealism where the world almost looks right and then after some inspection it doesn’t add up. In my work I like playing with the normal to see if it can lead to supernormal areas.

Still life with Pears: Photogram on 20” x 24” Film: Contact Print, 2006

HB: Your images often seem to deal with a re-representation of a pre-existing image, rediscovering the visual meaning of things we are quite used to look at.

AM: Because things have been photographed and represented so much it is often the case that they no longer have the same impact they once had. Imagine making an interesting sunset picture? I guess in my work I want to reilluminate some new sense of what we have gotten used to. It’s partly the Ezra Pound command of art TO MAKE IT NEW.

HB: How did you start the Camera Obscura project? What was your main inspiration?

AM: In the early 80’s, when I began teaching I would turn my classroom into a camera obscura to show students the roots of photography, so in 1991 while on leave I decided to actually make a picture of the effect - something I had never seen done before. My first picture was in our living room in 1991.

Boston's Old Customs House in Hotel Room, 1999

HB: Do you plan to end this series at some point or can it go on forever?

AM: It seems that I ‘m coming up with new variations on the camera obscura project – now I use color and I’m inverting the image so that it’s right side up. I plan to make some outdoor camera obscura images in Texas in March. So it continues.

HB: What makes you choose to keep or dismiss a Camera Obscura after you shot it? Did you leave out many exposures from the final series?

AM: The failures are few because I spend so much time preparing that usually I get what I want. Occasionally the sun doesn’t come out, or somebody opens a door.

Umbrian Landscape in Empty Room, Umbertide, Italy, 2000

HB: In your Money series you turned money from something we use to something we look at, or play with, reminding somehow the toys in your Childhood series. What was your inspiration for this photographic work?

AM: Money is symbolic paper and in that sense this work is a bit like what I did with books. In another sense I guess that I want to make pictures of money as pure material in a way to disconnect it from its less flattering hold on us.

$ 7 Million, 2006

HB: Have you ever thought about illustrating other books after your work on Alice in Wonderland?

AM: I’m thinking of working on the second Alice book, Through the Looking Glass.

HB: What does the use of black & white mean for you?

AM: I began shooting black & white in the streets copying my heroes like Cartier-Bresson, Robert Frank, Diane Arbus etc, so emotionally I’m tied up to strong feelings through black & white. Recently I have been using color and I like the new sense of reality this film can suggest - It makes me feel like a young painter.

Camera Obscura: View of the Grand Canal Looking Northeast From Room in Ca’ Foscari. Venice, Italy, 2008

HB: Do you still teach photography? What role did teaching play in your career?

AM: I have been teaching photography since 1983 and I still love doing it. My best students help me more than they know. Seeing their enthusiasm and ways that they find to solve visual problems energizes me to no end. The biggest pleasure comes to seeing a little of my own beginnings in them and that in turn makes me keep going.

HB: What interests you most of the contemporary photography scene?

AM: The new contemporary scene is so vast that it’s hard to understand it all. I try to keep up with it - mostly young artists. Looking at talented young people reminds me of my own beginnings and it inspires me to remain young at heart, too.

HB: What’s next in your photographic projects?

AM: I’m working on photographing early American words written by the founding people of the United States. Like Lincoln’s handwritten word SLAVERY.

The Night Cafe -Yale University Art Gallery, 2008

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Saturday, January 10, 2009

Weekend Flick

The Life Aquatic with Steve Zissou, Wes Anderson, 2004

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Thursday, January 8, 2009

Almost real

© Michael Schnabel

Incuriosito dal recente lancio del progetto [On Eizo] di Mrs Deane sulla 'nuova esistenza come immagine da monitor' della fotografia contemporanea, causata dalla predominante visione di fotografie su un computer piuttosto che su una pubblicazione o in una mostra, aggiungo un elemento al tema della 'visione virtuale' delle immagini. Penso che il problema principale sia la
perdita di un'esperienza percettiva delle immagini: si perde il dettaglio, si perdono le tonalità, si perde la percezione del formato dell'immagine finale, si finisce fondamentalmente con il pretendere di guardare un'immagine, ma in realtà quello che si ha di fronte è soltanto una sorta di 'abstract' della fotografia reale. Questo si rivela come assai drammatico quando si ha a che fare con dei lavori che poggiano principalmente su una particolare resa della luce, dove il 'soggetto' in sé non conta più di tanto rispetto all'ambiente visivo espresso dalle qualità specifiche dell'immagine.
Un esempio di visione virtuale di fotografie: le montagne e le sale da museo perse nell'oscurità di Michael Schnabel sono (per me teoricamente, poiché non ho mai visto delle immagini 'reali') un'autentica celebrazione del potere di nascondere invece che mostrare, immagini la cui forza risiede in ciò che suggeriscono e non in ciò che espongono. Ma in fondo che cosa stiamo realmente guardando? Una sofisticata post-produzione oppure una luce 'digitale' grossolanamente aggiunta in seguito all'immagine? Il monitor del nostro computer non ce lo rivelerà mai, purtroppo.
(P.S. Se avete problemi con la navigazione ultra flash del sito di Schnabel, potete guardare alcuni dei suoi lavori qui)

© Michael Schnabel

Intrigued by Mrs Deane's recent launch of their [On Eizo] project about 'the new existence as a screen image' of contemporary photography, caused by the ever-growing experience of photographic images on a computer screen rather than as publications or shows, I would add another perspective on the topic of 'virtual view' of images. The main thing for me is the loss of a true perceptive experience of an image: you loose the details, you lose the tonalities, you loose any relation with the format, you basically end up pretending you are looking at an image, while you're just enjoying some sort of abstract of the final work. This is especially relevant with works that mostly rely on a particular rendition of the light, where the subject in itself is not so important as opposed to the 'visual environment' expressed by the peculiar qualities of the final image.
Here's one dramatic example of online virtual viewing of photography: Michael Schnabel's vistas of dark mountains and museum halls are (in theory for me, since I never saw printed images) a true celebration of the power of hiding rather than showing, images whose strength come from what they suggest rather than from what they expose. But what are we actually really looking at? Sophisticated post-production or some gross 'digital' light merely added on the image subsequently? The LCD screen of our computer will never tell us the truth, I'm afraid.
(P.S. If you have trouble with Schnabel's site flashy navigation, you might prefer looking at some of his works here)

© Michael Schnabel

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"...tra una moto e l'altra c'è un silenzio..."

© Brent Humphreys

Ancora ciclismo con Le Tour di Brent Humphreys (lo trovate sul suo sito sotto la voce 'projects'), un'interessante viaggio nella gloriosa gara francese dedicato soprattutto ai suoi fan, che vagano tra colline e dirupi per sostenere i loro idoli. Alcune immagini patinate, ma il lavoro è comunque divertente ed è interessante il confronto del lavoro analogo di Jacques De Backer (lo trovate qui sotto).

More cyclism with Brent Humphreys' Le Tour (you'll find it in his website under 'projects'), an interesting exploration of the glorious French race, mainly focused on its faithful supporters wandering around hills and cliffs to support their idols. Some slick-looking images, but a lot of fun and an interesting comparison with Jacques De Backer's work on the same subject (find it right below).

© Brent Humphreys

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Monday, January 5, 2009

Bord de mer

Jacques De Backer, Cap Blanc-Nez, 2005

Un po' di mare adesso, visto che siamo ancora a gennaio, per quanto un po' di freddo si sente anche nelle fotografie: Mer agitée à peu agitée è un lavoro del fotografo belga Jacques De Backer, scene di vita quotidiana di fronte a ampie vedute del mare, dove le persone sembrano come dei visitatori di fronte a qualcosa di mai visto prima, perplessi e incuriositi dalla distesa infinita di acqua davanti a loro.
Da vedere anche Off Course, il suo progetto in corso sulle gare di ciclismo.
Qui una breve intervista con De Backer.

Jacques De Backer, Wimereux, 2006

A little bit of sea now, since we're still in the middle of January, even if it feels a bit cold in the photographs as well: Mer agitée à peu agitée is a work by Belgian photographer Jacques De Backer, scenes of daily life in front of wide views of the sea, where all the people to me look like visitors in front of something they never saw before, both puzzled and intrigued by the endless stretch of water in front of them.
Take a look also at Off Course, his ongoing project about cycling races.
A short interview with De Backer here.

Jacques De Backer, Tour de france 2006, Le Galibier

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Back on track

© Matthew Porter

Un inizio lento in questo 2009, quindi quale modo migliore di aprire il nuovo anno se non le automobili volanti di Matthew Porter? Per tutti coloro che (come me) sono cresciuti guardando in TV cose come Hazzard le sue immagini hanno un sapore familiare, ma al tempo stesso sono realizzate in modo così elegante e sono così stranamente immobili da sembrare come la versione astratta di quella cultura popolare da cui in teoria deriverebbero.

Slow start in this 2009, hence what better way to open the new year than Matthew Porter's flying cars? For anybody who (like me) grew up watching stuff like The Dukes of Hazzard, his images of acrobatic driving taste like something familiar, and yet they are so finely realized and so strangely still they almost look like an abstract rendition of the popular culture they seem to come from.

© Matthew Porter

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