Wednesday, November 28, 2007

Sul 'fotografico'

Robert Demachy, Mont Saint-Michel

L’uso dell’espressione ‘il fotografico’ ha suscitato delle reazioni, diverse tra loro, alcune delle quali hanno dato l’impressione di andare in direzione opposta a quello che si intendeva con quell’espressione. Probabilmente perché usata in maniera troppo concisa, data per scontata quando invece, è vero, evoca temi piuttosto complessi.
L’accezione con cui si proponeva il fotografico come qualità sovrastante le reali immagini fotografiche si riferisce al fatto che, storicamente, sin dalla nascita la fotografia ha evocato delle qualità e delle proprietà che si sono diffuse nelle altre forme espressive. La letteratura e la pittura, ad esempio, come del resto il parlare comune, hanno fatto proprie in vario modo nel tempo suggestioni e stimoli mutuati dalla fotografia.
È legittimo pensare che questo derivi originariamente dal ‘mito’ dell’invenzione fotografica, ‘mito’ perché vi si vedeva un progresso nel quale, ipoteticamente, la mano dell’uomo si sarebbe quasi potuta limitare ad assecondare le esigenze dell’apparecchio per creare un’immagine e per riprodurre la realtà.
Va anche considerato che la fotografia si è trovata, molto più di altre forme espressive, ad avere una storia dove l’industria e la libera ricerca sono sempre coesistite: c’è da chiedersi se uno slogan come quello della Kodak nel 1890, ‘Voi schiacciate il bottone, noi facciamo il resto’, non abbia inciso di più nel determinare un’immagine collettiva della fotografia, piuttosto che autori, libri, mostre o quant’altro.
Pensiamo che una delle principali conseguenze di ciò sia che in fotografia da una parte abbiamo la tecnica, l’industria, la cultura popolare, insomma tutto un insieme di immagini ‘globali’, dall’altra le immagini reali, che possono essere dell’amatore, del professionista, dell’artista.
Ed è per questo che si è contrapposto il ‘fotografico’ alle immagini fotografiche, perché pensiamo che la fotografia abbia l’ingannevole capacità di far sentire a chi la guarda di capirla, ma non necessariamente di sentirla davvero.
In fondo, tra due pittori non potrà mai esistere la differenza praticamente ontologica che può esistere tra due fotografi, al punto che può non avere molto senso chiamarli con lo stesso nome, rimanendo pura convenzione.
Però forse c’è il rischio che il ‘fotografico’ porti comunque ad accostarli forzatamente, con il pericolo così di togliere a uno per dare all’altro.
Il soggetto, la figura e lo sfondo, il genere, il colore o il bianco e nero, l’argomento, sono tutte cose che in fotografia rischiano di ‘preparare’ fin troppo la visione di immagini fotografiche, quasi connotassero l’immagine a prescindere, prima ancora che la si veda.
È difficile pensare le fotografie nella loro totalità di immagini, difficile pensarle come qualcosa in cui lo sguardo si muova, si soffermi, crei dei percorsi liberi, facile che siano immagini gerarchizzate, dove allo sguardo venga indicato dove guardare, quando, in quale ordine.
Però al tempo stesso esiste tanta fotografia dove ciò non è vero, dove esiste una libera ricerca, dove il lavoro è orientato verso la creazione di immagini e non verso la produzione di fotografie di qualcosa.
Nessuna intenzione di dire che una cosa sia migliore o più necessaria dell’altra in assoluto, semplicemente ci piace segnalare e riflettere sulla fotografia e sulle sue possibilità di libera ricerca visiva.
Questa è l’unica ragione per cui Hippolyte Bayard è nato.
Forse è tutto ancora troppo e in poco spazio, timore di speculare senza cogliere resta, però ci sarà tempo di continuare a discutere e approfondire, se ci sarà la voglia.

2 comments:

sabrina ragucci said...

Grazie Hippolyte per chiarimenti.
Anch'io lascerei spazio alle diverse possibilità (di qualità, parola pericolosa eh).
Non sono d'accordo proprio su tutto ciò che scrivi, ma sono qui soprattutto per un saluto.
Avremo modo. Ora mi guardo il blog.
Ciao, Sabrina Ragucci

Fabio Severo said...

beh, allora benvenuta e buona visita!