Wednesday, January 9, 2013

L’ambigua gloria postuma di Ghirri

Luzern, 1972 © Luigi Ghirri, courtesy MACK /www.mackbooks.co.uk
(pubblicato su Orwell del 22 dicembre 2012)

Nel pantheon dei padri fondatori della fotografia contemporanea italiana Luigi Ghirri ha sempre occupato un posto di primo piano. Nel corso della sua carriera, interrotta bruscamente dalla morte nel 1992, Ghirri ci ha consegnato un catalogo di visioni familiari e al tempo stesso stranianti, frammenti di luoghi conosciuti ma trasfigurati dalle sue composizioni. Una poetica dello stupore per le piccole cose, della scoperta celata dietro al banale e all'ordinario che ha lasciato un segno profondissimo nell'evoluzione del discorso fotografico in Italia. Nel 1978 Ghirri pubblica Kodachrome, un libro che raccoglie 92 fotografie realizzate nei sette anni precedenti, accompagnate da testi scritti da lui stesso e da Piero Berengo Gardin. Trentacinque anni dopo la prima edizione, andata esaurita molti anni fa, la casa editrice inglese MACK ha finalmente pubblicato lo scorso novembre una seconda ristampa fedele in tutto e per tutto all'originale, ridando una forma fisica a un oggetto che era diventato mitico, fino a ieri sfogliato con venerazione da pochi fortunati.

Reggio Emilia, 1973 © Luigi Ghirri, courtesy MACK /www.mackbooks.co.uk

La nuova edizione si presenta quasi come una copia anastatica, la copertina illustrata con gli stessi quadretti da quaderno scolastico dell'originale, l'aria retrò del carattere tipografico dei testi, e soprattutto le immagini, con quel sapore di pellicola, di fotografia fisica che ben si sposa con il titolo del libro. Il nome Kodachrome rappresentava per Ghirri l'universalità del fare e del vedere fotografie, una democratizzazione estrema dell'immagine: "Il senso che cerco di dare al mio lavoro è quello di verificare come sia ancora possibile desiderare e affrontare la strada della conoscenza", scrive Ghirri nella sua introduzione, "per poter infine distinguere l'identità precisa dell'uomo, delle cose, della vita, dall'immagine dell'uomo, delle cose, della vita". Il confronto/conflitto tra il reale e il rappresentato, l'interrogativo circa la possibilità di poter ancora produrre senso tramite la visione animano le riflessioni di Ghirri, che individua nel potere selettivo dell'inquadratura la via per ripensare la nostra percezione delle cose. "La cancellazione dello spazio che circonda la parte inquadrata è per me importante quanto il rappresentato ed è grazie a questa cancellazione che l'immagine assume senso diventando misurabile".

Rotterdam, 1973 © Luigi Ghirri, courtesy MACK /www.mackbooks.co.uk
La vita quotidiana presentata in forma di rompicapo, con tutto quello che non vediamo più perché sempre davanti a noi. Kodachrome incarna perfettamente questa ricerca del perturbante nell'ordinario, e Ghirri lo esprime con una semplicità disarmante quando fotografa il disegno di un cavallo dietro le sbarre di una saracinesca, oppure mostra la più classica delle vedute balneari recisa verticalmente da una scura trave di legno. Ovviamente in quegli anni non era il solo a interrogarsi su come rappresentare il paesaggio antropizzato delle società occidentali: come Ghirri in Italia, William Eggleston negli stessi anni introduceva il colore nella fotografia americana, osservando lo scorrere uguale delle giornate nei suburbs degli Stati Uniti, mentre New Topographics, una mostra inaugurata alla George Eastman House di Rochester nel 1975, raccoglieva i lavori di un gruppo di fotografi che indagavano le trasformazioni prodotte dalla mano dell'uomo sul paesaggio americano (Photographs of a Man's Altered Landscape, recitava il sottotitolo). Ciò che lega tutti questi lavori è la ricerca di un senso dell'immagine fotografica al di là di un bello predeterminato, sostituendo la celebrazione del paesaggio di Ansel Adams o Edward Weston con la rappresentazione dell'incongruenza delle forme e degli strati che fanno il territorio abitato.

Bastia, 1976 © Luigi Ghirri, courtesy MACK /www.mackbooks.co.uk
Ghirri conosceva bene sia Eggleston che i New Topographics, e più volte ha manifestato il suo interesse per la parabola della fotografia americana negli anni '60 e '70. L'errore è quindi pensare il suo lavoro come isolato, santificarne la creatività di cantore di un segreto spirito italiano, con quell'amore per le cose semplici che ci farebbe sentire ancora più vicini a lui. Inchiodarlo all'intuizione originaria di Kodachrome di una nuova estetica dell'ovvio, oppure alla celebrazione dell'impresa fotografica collettiva del Viaggio in Italia del 1984: il Viaggio è rimasto inamovibile nella memoria e nel presente della fotografia italiana, una vetta apparentemente insuperabile, la scoperta (e forse la conferma) di quell'anima malinconica, lirica che ci piace attribuire al nostro piccolo mondo antico. Siamo rimasti innamorati di quelle fotografie di panchine, palme, cancelli nella nebbia, bar di provincia come se non ci fosse più nient'altro da scoprire di questo paese, come se il viaggio si potesse fare una volta sola, e non ci siamo più chiesti perché non ce ne sia stato un altro. "Luigi", come molti lo chiamano, è diventato l'eterno cantore di quella poesia nascosta che in fondo non riusciamo a non concedere alla nostra patria. Il suo percorso d'artista ha spesso rischiato di diventare una serie di tappe agiografiche, quasi un destino già scritto. Eppure c'è bisogno di interrogarsi su cosa possa dire ancora oggi il suo lavoro, proprio come il nuovo Kodachrome ce lo ripresenta, identico all'originale. Come spesso ha scritto, Ghirri ha soprattutto indagato l'atto del guardare e del rappresentare tramite la fotografia.

Paris, 1977 © Luigi Ghirri, courtesy MACK
www. mackbooks.co.uk
Le immagini del libro sono scattate in Italia e in altri paesi europei, ma sembrano far parte di un unico mondo, quello cercato e ricomposto dal suo sguardo. Le sue fotografie a volte ci suscitano una forma di disappunto per non averle scattate noi stessi, tanto si presentano evidenti, in apparenza immediate. Chiunque può provare a ripetere quegli schiacciamenti di prospettive, quei ritagli beffardi con cui Ghirri creava i suoi rebus. Quello che non si può ripetere è l'intensità che riusciva a produrre con così poco: due panchine, un ombrellone, un benzinaio. Difficile è rendersi conto del complesso percorso di asciugamento dell'immagine, del lavoro a togliere necessario per arrivare a un'economia di mezzi così efficace. Più semplice è elogiare il suo approccio "intellettuale e al tempo stesso affettivo", le sue fotografie "apparentemente semplici, silenziose, un po' pensose", come recita il comunicato della mostra della Triennale di Milano "1984: Fotografie di Viaggio in Italia. Omaggio a Luigi Ghirri", della scorsa estate. A distanza di quasi trent'anni dal Viaggio, la mostra ha voluto riproporre le fotografie di quei luoghi "che ormai si sono completamente trasformati, spesso perdendo quella armonia tra natura e cultura che era un tratto così profondamente italiano". Ma Arturo Carlo Quintavalle, negli Appunti che introducevano il libro, all'epoca scriveva che l'intenzione del progetto era "una ricerca dell'Italia dei margini, dell'ambiguità, del finto, del doppio, dell'Italia sostanzialmente esclusa, dell'Italia che però è anche la sola che noi conosciamo". La distanza tra queste due affermazioni racconta tutto il conflitto tra il considerare l'opera di Ghirri come un patrimonio eterno e immutabile, e il tentativo di storicizzarne la ricerca, cercare i legami, i rimandi, e non cedere alla seduzione dell'intuizione solitaria. "Il vero genio non va monumentalizzato, va solo studiato", ha detto Andrea Pazienza, un altro artista italiano intrappolato nell'ambra della gloria postuma, ormai privato della possibilità di replicare, di cambiare tutto e ricominciare da capo.

Reggio Emilia, 1973 © Luigi Ghirri, courtesy MACK /www.mackbooks.co.uk

Luigi Ghirri, Kodachrome, MACK, 2012

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